Friday, August 27, 2004

Così muore un uomo curioso

che in mezzo a tanti martiri ed eroi è pur sempre una consolazione. Ciao E.G.B.
kubakuba

Saturday, March 01, 2003

Ai lettori

Questo blog, che narra le vicende di un viaggio a Cuba (il mio), è stato pubblicato in ordine chronologically reverse, cronologicamente inverso. Chi vuole leggerlo dall'inizio deve cominciare dal fondo della pagina, cioè dall'ultimo post e via via risalire.
In alternativa può scaricarlo integralmente in formato pdf e nel giusto ordine cronologico cliccando qui
Buona lettura.

Davide Pocobene

Wednesday, February 19, 2003

La Habana, otra vez
Per riprendere l’aereo e ripartire torno all’Avana.
Della mia seconda volta all’Avana, in tutto 1 giorno e mezzo, posso raccontare due cosette.

La prima è un episodio marginale. A un certo punto, nel quartiere dove alloggio, al Vedado, in una zona residenziale di ville con giardino, passo di fianco a una carcassa di auto (una rarità: non ne ho mai visto altre abbandonate ai margini delle strade) e noto che sulla carrozzeria ci sono delle scritte pro-Eta e pro-Ira, i terroristi baschi e quelli irlandesi. Al chè mi torna in mente che Itziàr mi ha raccontato che Cuba ospita alcuni terroristi baschi dell’Eta. E che lei ha addirittura parlato con uno di loro, recandosi in un posto che si chiama Centro Vasco. Decido di andare a vedere che posto sia. Lo trovo indicato su una guida e mi ci reco. Scopro che non è altro che un ristorante. Mi dicono che si chiama così perché il vecchio padrone era basco. Comunque in quel momento è deserto e di connazionali dell’ex proprietario, terroristi o no, non trovo nemmeno l’ombra.

La seconda cosa è più divertente: incontro il secondo italiano che vale la pena di citare.
Sono davanti a un chiosco che vende le più belle pizze al taglio che mi sia capitato di vedere da quando sono qui. Improvvisamente da dietro mi sento battere sulla spalla
_“Ehi amigo, es bueno pizza aquì?”
_”Sei italiano vero?”
_ “Sì, sono di Ferrara. Anche se vivo qui”
_”Ah, ma dai, io sono di Modena..”
_”Guarda che qui la pizza non è buona, è molto meglio lì più avanti, ti ci porto io”
Assieme a lui c’è un ragazzo di colore, inequivocabilmente agghindato da ragga boy , con dredlocks, berrettino coi colori giamaicani eccetera.
Parliamo e mi racconta che si chiama Francesco, che ormai vive sei mesi in Italia e sei mesi a Cuba ma ha in programma di trasferirsi qua tutto l’anno. Si sta per sposare con una cubana. In Italia lavora in uno zuccherificio ma se riesce a vendere la casa e l’automobile, coi soldi che ha da parte smette e resta sempre ai caraibi. Magari si mette ad affittare l’ appartamento supplementare che ha fatto costruire nella sua nuova casa a Santiago.
_” E come sei messo qui all’Avana, hai bisogno di un alloggio bello a poco prezzo, posso trovartelo..”
_ “No, guarda domani ho l’aereo e ritorno a casa”
_ “Ah stai per tornare in Italia. Guarda, se devi qualche regalino, lui ha dei sigari originali veramente buoni” – e mi indica il ragga
_”Mah.. i sigari mi interessano poco…”
_” Guarda che sono veramente sigari originali, a un prezzo che se anche li rivendi fai un affare, cioè…lo dico per te..”
_”Guarda, sono praticamente senza soldi, parto domani perché li ho finiti”
A quel punto getta la maschera e confessa di essere uno che fa quel mestiere lì: cerca italiani per offrirgli una casa o quant’altro e si becca le solite commissioni. Fa un mestiere che di solito è riservato ai cubani.

_” Mah, cosa vuoi, sono qui all’Avana per affari burocratici, non dovrei neanche lavorare, lo faccio soprattutto per lui.” (il rasta) “Poveraccio, è rimasto senza casa, dorme alla stazione dei pullman”

Nel mio piccolo una mano gliel’ho data: sicuramente si è beccato le commissioni sulla pizza al taglio che mi hanno portato a mangiare dove dicevano loro. Che sicuramente era peggio di quella che stavo per addentare io nel chiosco dove mi hanno agganciato.

A quel punto voglio divertirmi e mi aggrego a loro per vederli “lavorare”. Fa veramente ridere: gironzolano per le strade di Habana centro e Habana vieja cercando di individuare gli italiani, poi Francesco si avvicina e fa finta che gli sfugga una parola in italiano. Se il pollo risponde è agganciato. E allora le presentazioni, un po’ di confidenza, fino al - ti serve una casa - cerchi un ristorante - sigari originali?

Contemporaneamente a tutto ciò, il nostro eroe, italiano fino al midollo, ci prova anche con le habanere che incontriamo per strada: lo vedo combinare almeno tre appuntamenti diversi, per quello stesso giorno, all’ora di cena.

Nel tardo pomeriggio ci fermiamo in un bar e lì mi racconta qualcuna delle sue storie di intrallazzatore italiano di piccolo cabotaggio trasferito a Cuba.
Vive nell’isola da anni con un visto da studente, iscritto a non so quale corso dell’università. Ha vissuto in diversi posti: si era stabilito all’Avana ma poi si è trasferito a Santiago perché l’aria si stava facendo pesante. Pare che ai mediatori autoctoni non piacesse la concorrenza straniera. Nell’est le cose sono un po’ più facili: ha trovato un francese e un danese coi quali va in giro a fare le stesse scenette che oggi recita col ragga boy.
_”Insieme copriamo tutte le principali lingue turistiche”

Hanno provato anche a fare qualche traffico con la Giamaica, con scarso successo.
Tutto sommato penso che abbia ragione quando dice: _”Io ti offro un servizio. Tu vieni qua, hai bisogno di una casa in affitto, io te la trovo. E te la trovo come vuoi tu, da quella più economica alla villa con piscina, ti faccio spendere quello che mi dici tu. Stessa cosa per il ristorante e tutto il resto, che male c’è se ci guadagno qualcosa?”

L’ultima noche cubana dove la spendo a Las Vegas sperando di rivedere lei, Yarianne (ricordate?). E infatti c’è. Mi saluta, parliamo, balla un po’ con me strusciandosi come la prima sera, ma è tutto diverso. Quella notte starà quasi tutto il tempo con la sua compagnia di amici cubani e se ne andrà a casa assieme a uno di loro.

Infine, l’ultima sorpresa del viaggio: chi ci trovo anche nella discoteca? (ri-ri-giuro!)
La mia jinetera/guida della prima sera.
Se fosse un film direi: banale.
La cosa particolare è che mi riconosce lei e vedendomi un po’ giù, mi offre anche una birra. Simpatico a volte il destino. Un po’ come le persone.

Alcune opinioni e considerazioni finali
La cosa di Cuba che dà più angoscia è la miseria morale nella quale sono costretti a dibattersi gli abitanti. Badate bene: non la miseria materiale. Da quel punto di vista il mondo, soprattutto a queste latitudini, conosce ben di peggio. Ma l’essere prigionieri in un paese nel quale chi lavora guadagna dagli 8 ai 20 dollari mensili e chi sta addosso ai turisti quei soldi può farli su in mezz’ora, è una cosa ripugnante. L’impressione che ho avuto è quella di una società tremendamente segnata da quest’ingiustizia. C’è mezza Cuba che si getta nelle braccia di qualsiasi straniero, convinta che lavorare sia una cosa senza senso e che l’Europa e gli Stati Uniti siano una specie di Disneyland nella quale si vive facendo shopping. Il loro sogno proibito è gettarsi in un ipermercato insieme a una VISA senza limiti di spesa. Poi c’è l’altra mezza Cuba, di solito altrettanto disillusa, ma che prova a conservare un po’ di dignità. Che non salta addosso ai turisti. Ma che osserva la situazione con una certa rabbia interiore. Quanta sia questa rabbia e a cosa possa portare, non saprei proprio dirlo.

Io non dubito che siano stati i giganteschi errori - chiamiamoli così con un eufemismo - del governo americano a spingere Castro tra le braccia dei sovietici. Io non dubito che la creazione di un sistema sanitario e di un sistema scolastico accessibili a tutti, in un paese del centro-sud america, siano stati una grande conquista sociale.
Io non dubito insomma che questa rivoluzione sia stata una grande speranza per molti. Io non dubito che avesse in sé dei forti contenuti libertari e di progresso.
Ma proprio per questo occorre dire - e occorre dirlo forte e chiaro - che questo regime è una gigantesca merda. Che si nasconde dietro il nazionalismo e dietro l’embargo americano. Che fa della delazione, del ricatto e del carcere gli strumenti privilegiati del controllo sociale.

I piccoli particolari
I ricordi sono fatti anche dai piccoli particolari, le minuterie che trovi in un posto.

Il caffè dolce: sempre. Per i cubani è molto strano che tra gli europei ci sia chi lo vuole bere amaro.
Le scuole elementari: sono sempre al piano terra degli edifici. Spesso porte e finestre sono aperte. Chiunque passa guarda dentro. Più pubblica di così la scuola non potrebbe essere.
Il domino: sui tavolini nelle piazze o in quelli dei bar non si gioca a carte, si gioca a domino.
La boxe e il baseball: i due sport nazionali. A Baracoa ho visto un incontro di baseball allo stadio (senza capirci niente come al solito) e una manifestazione nella quale diversi pugili si alternavano su un ring che era montato in piazza.
Il presentatore della “Casa della Trova” di Baracoa: scusa se non ti ho mandato le pile per per il tuo puntatore laser: è che ho perso il tuo indirizzo! (una delle persone più simpatiche che abbia conosciuto a Cuba)

Sono stato a Cuba tra il 15 maggio e il 14 giugno dell’anno 2000

http://diariodicuba.blogspot.com

Sunday, February 16, 2003

Il Caso Eliàn
Il mio viaggio si è svolto in pieno caso Eliàn.
Si tratta di una vicenda emblematica di come il potere non si faccia scrupolo di appropriarsi di vicende private, anche molto dolorose, per assecondare i suoi scopi.
Riassumo brevemente i fatti per coloro che non li conoscono o li hanno dimenticati.

Un gruppo di cubani, tra cui una madre con il suo bambino tenta di espatriare clandestinamente negli Stati Uniti via mare, come succede abitualmente. La madre muore durante il difficile viaggio, tutti gli altri vengono tratti in salvo nelle acque territoriali americane e portati a Miami. A questo punto il padre del bambino, che era rimasto a Cuba, chiede che gli sia restituito suo figlio. Senonchè a Miami, presunti lontani parenti della famiglia, esuli anticastristi, si oppongono alla richiesta e scatenano i loro legali per averne l’affidamento e impedire che il ragazzino torni a Cuba.

Immediatamente, quella che era una vicenda strettamente privata diventa un caso politico. Castro, che se ne serve per mettere in difficoltà il governo americano, minaccia fuoco e fiamme, organizza manifestazioni oceaniche con lo slogan “Devuelvan a nuestro niño” – Ci restituiscano il nostro bambino. (nostro? nda)

Gli esuli anticastristi lo usano per le stesse ragioni, però speculari: rilanciare la loro causa e guadagnare visibilità. La cosa si trascinerà per diversi mesi e si concluderà poco dopo il mio rientro in Italia.

In questo modo: quando il tribunale ordinerà definitivamente la restituzione del bimbo al padre, i parenti si barricheranno in casa, facendola anche circondare dagli anticastristi di Miami e cercando di resistere all’ordinanza. Ci vorrà un blitz della polizia, ordinato da Clinton in persona, per sbloccare la situazione. Senonchè, la foto di un poliziotto in tenuta antisommossa, che da pochi passi punta il mitra contro un parente che tiene in braccio Eliàn, per strapparglielo, e la faccia atterrita del piccolo, faranno il giro del mondo.

Ancora un paio di aneddoti
A proposito del sistema sanitario gratuito, posso citare questo episodio: sono in taxi che sto andando alla Bahia de mata (un posto incantevole: villaggio sul mare di pescatori rigorosamente testimoni di Geova). A un certo punto passiamo accanto a un ospedale, una signora fa segno, il taxi si ferma e carica un uomo dolorante, che avrebbe bisogno di stare sdraiato. Questo ovviamente è impossibile, e così lo adagiamo sul sedile dove c’è più posto, quello davanti.
_ “Ahi ahi me mataròn, me mataròn” . Si lamenta. E’ stato appena dimesso dall’ospedale, dove l’hanno operato d’ernia. Piccolo particolare: senza anestesia. Non c’era.

A Cuba può capitare che alcune persone, anche incontrate per caso, ti chiedano un favore per loro molto importante: ti consegnano delle lettere e ti chiedono di imbucarle dal tuo paese. Evidentemente vogliono evitare che qualcuno possa scuriosare tra i contenuti e magari chiedergliene conto. Aiutarli è un dovere morale, e infatti porto in valigia diverse lettere consegnatemi, che spedirò dall’Italia. A Baracoa però mi capita questa cosa: entro all’ufficio postale, probabilmente per comprare alcuni francobolli. Al momento di pagare l’impiegata, sottovoce, mi chiede se posso impostare alcune lettere per lei dall’Italia. Le rispondo di sì. “Sono lettere per il Canada - mi dice- quanto tempo impiegheranno?” Rispondo che non lo so.
“E’ molto lontano il Canada dall’Italia?”
Mi viene da sorridere
_“Sì, è molto lontano”
_“Ma più o meno che da qui all’Avana?”
Di più, di più.


L'embargo (come lo vedo io)
Il presidente Nordamericano potrebbe raccontarlo più o meno così:

“Cari americani, popolo eletto, noi diffondiamo in tutto il mondo i nostri valori. Che sono la libertà di parola, pensiero, stampa, eccetera. E il libero mercato.
Che si può riassumere così: le nostre mega-corporation vanno in giro per il mondo a fare il bello e il cattivo tempo e se a qualcuno non va bene, gli spediamo i nostri boys in divisa, che sono il vanto della libertà mondiale.
A Cuba ci abbiamo provato senza successo. Ma noi siamo dei duri e quindi non molleremo mai. Gli impediamo ogni transazione commerciale con noi e i nostri alleati e vietiamo alle istituzioni finanziarie internazionali tipo FMI, di fargli credito.
Perciò, siccome sono un vero duro e voi non potete che approvare la mia condotta, votatemi.
Oppure votate il mio avversario, che tanto dice esattamente le stesse cose.

Il presidente cubano, pardon: el comandante en jefe – il comandante in capo – come si fa sobriamente chiamare, invece, lo immagino con queste parole:

Cari cubani, popolo eletto, con grande eroismo e sacrificio il nostro popolo ha conquistato la libertà. Ma i porci imperialisti non demordono e continuano a volerci imporre la loro volontà. Anche noi però siamo tenaci nel difendere i nostri valori. Che sono il socialismo e la giustizia.
Che si possono riassumere così: voi non potete fare niente se non vi do il permesso io. Perché se no siete controrivoluzionari e vi sbatto dentro.
A causa delle nostre idee, gli americani ci impediscono di fare ogni transazione con loro e i loro alleati. Quindi ricordatevi che ogni cosa che manca, è colpa degli americani. Se non fosse per l’embargo qui sarebbe il paradiso e noi tutti vivremmo come pascià.
Comunque, siccome siamo dei veri duri e voi non potete che approvare la mia condotta, non cederemo mai.
Potete anche non votarmi, tanto le elezioni sono 50 anni e passa che mi dimentico di indirle.

(Come faremmo a vivere senza i grandi leader che si prendono cura di noi?-nda)
(continua)

Thursday, February 13, 2003

La (falsa) testimonianza
Baracoa – non so quale ufficio dell’amministrazione comunale

Ci incontriamo nei pressi, di primo pomeriggio, io la padrona di casa e l’avvocato.
Che si raccomanda: “Nella dichiarazione spontanea, niente incertezze e niente contraddizioni con quanto hai già dichiarato all’ufficiale di polizia. Devi dire che la fai solo per amore di giustizia” Bene.

I funzionari comunali mi fanno entrare nell’ufficio, sedere, sempre con l’avvocato e la padrona presenti e mi chiedono di nuovo la versione dei fatti. Passo l’esame a pieni voti: nessuna incertezza, nessuna contraddizione, uno spagnolo abbastanza chiaro e comprensibile. L’avvocato è soddisfatto.

Solve et repete: i suoi clienti momentaneamente dovranno ugualmente pagare la multa, ma hanno buone possibilità di vincere il ricorso e di vedere restituiti i soldi. Bene.


Saluti e baci
(bye bye Baracoa)

Ora che ho fatto il mio dovere vado a cercare Jacqueline. Vado al suo alloggio ma mi diranno che se n’è già andata. Per le strade non la trovo. Vado in spiaggia e non c’è. Bene, mi dico. Forse ha fatto la cosa più saggia e se n’è andata da Baracoa.
Invece alla sera vado al solito Paraiso, e la incontro là.
_”E’ tutt’oggi che ti cerco”
_”Non è vero”
_”E’ vero. Sono stato al tuo alloggio ma non c’eri più, per strada non ti ho vista, in spiaggia non sei andata…”
_”Pensavo che non mi cercassi più”
_”Ma perché cazzo stai ancora qui? Vuoi finire dentro di nuovo?”
Fa spallucce.
Forse nella sua situazione essere dentro o fuori non ha poi tanta importanza.
Mi presenta alle sue conoscenti, altre jinetere che conosco di vista. Mi presenta con queste parole

“E’ buonissimo. E poi è bello, no?”
“..y singa rico!” – scopa bene.
Brava. Grazie della sviolinata, fa sempre piacere.
A un certo punto arriva con una sua amica. “Ci offri una cola?” E’ la prima volta che mi chiede qualcosa. “Sì, certo”. Una lattina di Tropicola costa 1$. Io ho solo un pezzo da dieci e le do quello. Stavolta è una prova di fiducia.
_ “Tranquillo, non ci sono problemi con me. Vado e torno”

Invece le perdo di vista. Passa un ora, forse più. Mi dico che era naturale che finisse così, non poteva andare diversamente.
E invece a sorpresa ricompaiono. Con gli otto dollari di resto. Ora: io le lattine non le ho viste. Forse le hanno bevute. O forse in quell’ora che è passata hanno girato la città alla ricerca di qualcuno che gli cambiasse la banconota e poi si sono spartite i due dollari, uno a testa. Ma se anche fosse, posso pensare male di loro?

Dopo un altro poco, vedo Jacqueline che parla con un turista tedesco. Poi viene da me e mi fa (ri-giuro!)
_ “Amor, posso andare col tedesco stasera? Mi dà 50 dollari più una maglietta per qualche ora con lui. Ma dopo ti giuro che vengo da te e facciamo l’amore. E poi ti regalo anche la maglietta”

Eccezionale direi. In neanche un mese sono quasi diventato un fulano * . L’uomo della cubana, il mantenuto.

Ripensandoci mi viene da ridere. Quella sera invece credo che mi sia venuto da sorridere.
_ “Guarda, domani sera fai quello che vuoi. Questa sera è la mia ultima serata a Baracoa e, insomma...scegli.”

Lascerà perdere il tedesco e verrà con me. Salvo poi che a casa dormirà e basta.
Il giorno dopo, verso l’alba, è quasi il momento dell’addio.

_”Mi regali 10 dollari?”
Sospiro. Torno a sospirare.
_ “Me li chiedi per fare l’amore?
_” Io non ho voglia di fare l’amore. Ti ho chiesto un regalo e basta”. Bene, apprezzo la sincerità.
_ ”Facciamo così: prenditi i soldi che sono nel portafoglio”. Sono 7 dollari e rotti. E’ contenta.

Io invece sono perplesso.
Allora esprimo le mie perplessità a voce alta, con un discorso sulla stranezza del mescolare denaro e sentimenti e su quanto in questo viaggio mi sia reso conto di come le differenze economiche creano barriere ai rapporti umani e così via...
Gli attacco una pizza, insomma. Jacqueline ascolta.
In Italia con 7 dollari e rotti, la pizza non gliela offrivo nemmeno.

Mi lascia il suo indirizzo di Santiago.
_” Se capiti nel barrio chiedi di me, mi conoscono tutti. Se ti fai trovare al parque mezz’ora prima di partire, ci salutiamo lì. Forse”
Ci andrò, ma lei non verrà.
Il mio pullman parte. Nel primo pomeriggio.
(continua)

*: fulano in realtà è l’amante occasionale, quindi non è il termine giusto. L’ho usato perché non ricordo più quello che designa specificamente il mantenuto -nda

Sunday, February 09, 2003

Il ritorno di Jacqueline
La mattina dopo i miei affittuari mi dicono che l’avvocato li ha consigliati di fare ricorso contro la multa. Però per vincerlo ci vuole una mia dichiarazione spontanea che affermi, concordemente a quanto già dichiarato all’ufficiale di polizia, che quella sera in camera mia non ha dormito nessuna ragazza. Così concordiamo che farò questa dichiarazione e dirò che avevo fatto entrare in casa la ragazza che era con me in quel momento, solo per proteggerla dagli altri due, che ci seguivano e ce l’avevano con lei. E che i padroni di casa, una volta svegliatisi a causa del baccano provocato dai due malintenzionati di fuori e verificato che la ragazza non aveva documenti, l'avevano immediatamente estromessa. Bene. Mi sembra una versione accettabile. Sia per me che per Jacqueline che per i padroni di casa.

Al pomeriggio esco di casa per andare al mare. E lungo la strada una mano mi si posa sulla spalla. E’ Jacqueline. L’hanno appena rilasciata con l’obbligo di andarsene dalla città.

_” Io sono più intelligente di Marìsol: ho dichiarato che io sono una prostituta e che lei era la mia sfruttatrice. Siccome sfruttatrice è più grave di prostituta, a me mi hanno rilasciato e lei è ancora dentro.”
E ride. Ma è una risata che fa una grande tenerezza. Si vanta di essere furba e invece è una poveraccia. Una che non ha niente e non si può difendere da niente. Vittima, come lo sono tutti i poveracci. Come lo sono anche, alla fine, i due balordi, Marìsol e il suo compare

E’ vestita ancora come quando l’hanno portata via. E’ contenta di vedermi. Anch’io lo sono, e andiamo in spiaggia insieme. Durante il tragitto però mi fa una domanda: “Ma tu ieri cosa hai fatto?” Le rispondo molto sinceramente: sono andato al mare e alla sera al Paraiso .

_”Quindi mentre io ero in galera tu eri in spiaggia che prendevi il sole. Poi alla sera sei andato a divertirti al Paraiso e ti sei pure portato a casa una ragazza”
_”No, veramente, lo stavo facendo ma alla fine ho rinunciato”
_”Perché non sei venuto al commissariato a cercarmi?”

Bingo. E adesso cosa le dico? Posso dirle che sotto sotto mi era rimasto il dubbio che lei fosse d’accordo coi due bastardi per rubarmi tutto? Posso dirle: guarda, io pensavo di no, ma tutti mi dicevano il contrario.. ?
Posso dirle: ma sei soltanto una jinetera, cosa ti aspetti una storia d’amore?
Cerco invece di difendermi: “Ma, non sapevo dov’eri...e poi cosa potevo fare?”
_”Ma scusa perché hai dato i tuoi sandali a Marìsol? Cos’è la storia dei 5 dollari che lei voleva da te?”
E mi spiega che, non essendo lei del posto, è facilmente ricattabile. Marìsol vedendola al Paraiso, le ha detto che se andava con uno straniero, dei 10 dollari che si doveva far regalare, 5 erano per lei. Se no la denunciava alla polizia come prostituta. Poi forse non si era fidata, chissà, e così era venuta a bussare pretendendo subito la sua parte.

E tutta qui sta la maledizione di Cuba. Un inestricabile groviglio di soldi, sopravvivenza sesso e sentimenti, nel quale è impossibile capire fino in fondo dove cominciano gli uni e finiscono gli altri.

Di solito in letteratura, parlando delle Jinetere si fa riferimento al loro cinismo e alle loro carinerie interessate. Che è certamente molto vero. Ma provate a mettervi dall’altra parte: pensate che una Jinetera non sogni di trovare l’amore tra i suoi frequentatori? Pensate che non sognino la loro versione del principe azzurro, l’uomo che si innamorerà di loro e le libererà da quella vita? Rimpiango la chiarezza che ho sempre avuto in Europa. Cioè, per come si erano svolti i fatti

Jacqueline mi parla della sua situazione, del fatto che in realtà fa ancora l’ultimo anno delle superiori, ma si vorrebbe iscrivere a medicina. Vive a Santiago, ma lì a Baracoa racconta a tutti di essere di Moa. Perché giustamente non si fida di nessuno.

_ “Lo dico sempre a mia madre: Mamma, io mi sposerò con un cuoco, perché la fame non la voglio patire” – e mi strappa un sorriso stiracchiato. Di quelli che inumidiscono un po’ gli occhi.

Una delle piccole soddisfazioni che ho con Jacqueline: riesco a farle cantare alcuni pezzi di cantare Manu Chao. A Cuba non lo conosce nessuno. Alla fine mi intonerà
Lagrimas de Oro

Andiamo in una spiaggetta dietro al promontorio, un posto molto bello e molto nascosto.
A un certo punto mi fa: “_Hai mai fatto l’amore in spiaggia?”
_”No”
Ma quando faccio per approcciarmi si tira indietro. “Voi italiani non sapete far niente: non sapete ballare, non sapete far l’amore”
Sorrido. _“Perché fai così?” Non dice nulla.
Me lo dirà qualche ora dopo, mentre è ormai buio e torniamo verso casa:“Io ieri ero in prigione e tu eri qui a divertirti”

La nostra situazione è questa: lei deve andarsene da Baracoa, se la ribeccano lì torna dentro. Io le dico che forse è meglio per lei farlo davvero. Mi risponde che finchè sto lì io ci sta anche lei, se la ospito. Voi cosa avreste fatto? Io non so cosa si aspetta, se sia sincera o meno, ma nel dubbio posso dirle di no?

Le faccio notare che se la ribecca la mia padrona di casa, prima di consegnarla alla polizia le ficca anche le dita negli occhi. Decidiamo così che saremmo andati a cercarle una stanza per la notte. Di quelle per cubani.

Aspettiamo il buio per tornare a Baracoa
Nel rientro ci spartiamo una porzione di pesce fritto che ci offre il mio amico pescatore. Poi, siccome lei ha ancora fame, le lascio un dollaro per comprare qualcosa mentre io vado a farmi la doccia. Ci diamo appuntamento in un parchetto deserto in periferia.

Quando arrivo la trovo che mangia una pagnotta di pane, è riuscita a trovare solo quella. Mi dà il resto del dollaro e un pezzo di pane che mi ha tenuto da parte. Quasi quasi mi commuovo. Baci sotto la luna per una storia dal romanticismo veramente ambiguo.

Riusciamo a trovarle una stanza dopo una ricerca affannosa. Una notte costa 2$.
_ “Per voi sono sciocchezze, per noi sono molti soldi”
Andiamo a casa mia, tanto ormai i padroni sono a letto. Dopo tre giorni senza la possibilità di lavarsi, Jacqueline si può fare una doccia. Fa tenerezza il suo stupore nel vedere il grosso barattolo di shampoo che sta nel mio bagno. E’ la prima volta che può usarlo. I cubani si lavano i capelli col sapone. Che naturalmente è razionato. Quella notte Jacqueline dorme da me, ma verso l’alba la devo svegliare. Non ne vuole sapere, fa una faccia brutissima, s’incazza. Sembra che non si ricordi più il motivo che ci ha fatto prendere una stanza per lei.

Se ne va con un andatura un po’ sghemba, ancora mezza addormentata, scagliando per terra non mi ricordo più quale oggetto di cartoncino.
Per tutto quel giorno non la vedrò.
(continua)

Wednesday, February 05, 2003

Ancora Jacqueline
Capirò solo dopo che ho fatto una cazzata. Ma lì per lì sono furioso e non mi rendo conto delle conseguenze. La cosa più strana è che neanche Jacqueline si rende conto, e mi segue serenamente
Prima sorpresa: anche nel centro di Baracoa, come a Trinidad, di notte rimane solo un agente della polizia privata.
Seconda sorpresa: dopo tre minuti dal nostro arrivo, si presenta anche l’altra ragazza, quella che ha scatenato tutta la vicenda. Il poliziotto la conosce, la chiama per nome, Marìsol .
E in un attimo Jacqueline passa dal banco degli accusatori a quello degli accusati. Marìsol dice che la conosce, che è una prostituta di Moa e che è senza documenti.
L’agente è molto cauto, cerca di minimizzare il tutto. Quasi la implora che non lo costringa a chiamare la polizia, quella vera. Quella di stato. Ma lei è irremovibile, vuole denunciare tutto.
A quel punto il nostro agente privato ci congeda e dice che chiamerà la polizia. Senza capire bene cosa sta succedendo, ma molto perplessi, noi torniamo verso casa. Troviamo i miei affittuari seduti sui gradini della porta. Spiego loro cos’è successo e vengo ovviamente rimproverato, pittosto bonariamente a dire il vero, per essere uscito di casa nonostante le raccomandazioni. Mi sembrano preoccupati, pur nell’apparente tranquillità.

Infatti Jacqueline sta ancora raccontando la sua versione dei fatti, che dal fondo della strada spunta un poliziotto, in compagnia di Marìsol. La avvicina, le chiede cortesemente i documenti. Lei dice che non li ha.
_ “Allora signorina, mi deve seguire”
E tutti e tre si allontanano tranquillamente, che sembra stiano facendo una passeggiata.

Il giorno dopo, mentre ancora rimugino su tutto quello che è successo si presenta a casa un tizio che si qualifica come ufficiale di polizia. La padrona di casa lo accoglie con un: “Mi aspettavo una vostra visita”. Il tizio la informa che durante l’interrogatorio di una ragazza fermata in questa via perché priva di documenti, è emerso che si trattava di una prostituta che era entrata irregolarmente in questo alloggio e aveva dormito con un turista, benchè priva di documenti. Essendo io il turista, viene chiesta la mia versione dei fatti.

Io dichiaro che la ragazza era entrata solo un attimo nel corridoio e che due sconosciuti avevano immediatamente cominciato a picchiare alla porta senza motivo. Svegliatisi i padroni di casa, questi avevano fatto uscire la mia ospite in quanto priva del carnet d’identità. In ogni caso, mi preoccupo di dire, sperando con questo di aiutare Jacqueline, che non si trattava assolutamente di una prostituta, perché in nessun momento mi aveva chiesto del denaro, né aveva motivo per farlo.

Piccola digressione sui documenti. Le case particular, sempre per il regime di apartheid di cui ho già avuto modo di parlare, sono riservate agli stranieri. E’ permesso al turista di ospitare un cubano, purchè la sua presenza venga registrata su un apposito modulo, dietro fornitura di un documento di identità. La polizia controlla periodicamente i registri e quando trova il nome di una ragazza che si è fermata con troppi turisti diversi nel giro di troppo poco tempo, questa viene classificata come prostituta. Quindi le jinetere non portano mai documenti con loro. Fine della digressione.

Insomma, i miei padroni di casa vengono considerati responsabili della mancata registrazione di un’ ospite del turista. E per questo viene loro comminata una sanzione di 200 $. La cosa li manda nel panico. Cercano di convincermi che siccome la colpa di quanto è successo è mia, sono io che dovrei pagare.

Di diverso avviso sono i miei amici cubani, sia Manuel e Henry che il pescatore. Mi dicono tutti: “La multa l’hanno fatta a loro e non a te. Piuttosto cambia casa ma non pagare nulla.”

Effettivamente è innegabile che la responsabilità di quanto è successo sia mia, ma a me di pagare questa multa non mi va proprio. Così racconto a me stesso che tutto sommato quello che è successo rientra nei rischi di gestire una casa particular, e a loro che io quei soldi non ce li ho. Inizialmente si incazzano. Mi dicono che loro duecento dollari non li hanno neanche loro, che non sanno dove prenderli. Poi si rassegnano e cominciano a consultarsi col loro avvocato.

Una piccola digressione anche sull’avvocato. Una mattina di qualche giorno prima rispetto a questi fatti (giuro!)mi alzo da letto e vado a fare colazione in cucina. Trovo i due prof. seduti a tavola con una persona che mi presentano come il loro avvocato. Per fare una battuta dico: _ “Ah bene, un avvocato. Così se mi capita qualcosa ci pensa lei a difendermi.”
Pronta la sua risposta: “Non succederà niente”. Fine della digressione sull’avvocato.

Quel pomeriggio, quando esco di casa mi accorgo di avere un succhiotto sul collo. Ora: i succhiotti sono indiscreti, e averne uno sul collo può non essere una cosa molto simpatica neanche da noi. Ma a Cuba, vi garantisco, è un' autentica calamità. Non posso camminare tra la gente senza sentire i risolini e vedere i bisbiglii all’orecchio dopo che hanno indicato col dito il mio collo. I commenti ad alta voce si sprecano: “Hey amigo, hai incontrato una vampira?” Poche volte nella vita sono stato così imbarazzato. E a disagio. Arriverò a camminare col collo piegato da una parte per cercare di mascherare la cosa.

La sera sono di nuovo al Paraiso
_ “Que chica te llevas por la noche?”
_ „Boh. Non so. Cioè, non ho deciso se anche stasera...”
_ “Portame con tigo”
_ “E’ che vedi, ieri sera m’è capitato che…”
_” Ma quella era una di fuori, una strana. Io sono di Baracoa, con me non ti devi preoccupare. Portami con te”
_ “Mah…boh, bè….va bè”

Sei sulla strada per casa, di ritorno dalla nottata. Saranno le quattro. A Baracoa c’è solo silenzio nelle stradine del centro. Di fianco a te una mulatta molto carina. Ma ecco che il demone del moralismo si rifà vivo in me:
_ “Non è tanto giusto che io ti porti a casa. Se non avessi soldi tu non verresti con me”
_ “No non è vero, vengo con te per i tuoi occhi. Per i tuoi muscoli”

Ecco. Passi per gli occhi. Ma i muscoli poteva proprio evitarseli. Penso di avere i muscoli più asfittici della cittadina. Bugiarda! Mente, e come spesso fanno i cubani lo fa in modo spudorato. Non credibile. Lì per lì penso: “Stronza. Capisco che sei puttana, lo so. Ma non mi riservi proprio un briciolo di simpatia in più che a qualsiasi altro”. La cosa mi urta. Perché ognuno di noi, nel suo desiderio di unicità, vorrebbe che gli si riservasse qualcosa di più che agli altri. E davanti a me si prospetta la notte con una che tutte le notti le passa con uno straniero diverso.

Va bè d’accordo: il sesso ce l’ho in testa. Mi piace molto. Esattamente come al 90% della popolazione mondiale. Ma proprio per questo: ne va della mia dignità di sessuomane. Sì, perché se sei un vero sessuomane sai che il sesso è bello se c’è pathos. Se è espressione di ricerca d’intimità, di contatto. E’ il desiderio che gli dà valore. Sennò è povertà. E’ orgasmetto. E’ tristezza. Il sesso fatto con chiunque, meccanicamente, pura esigenza fisiologica, è come mangiare l’esterno dell’ anguria e lasciare lì il tassello.
Cioè: non sei proprio un buongustaio.

Quindi rinuncio. Adesso rinuncio. Però vorrei potermi incazzare. Vorrei incazzarmi perché a Cuba sono tutti bugiardi. Vorrei incazzarmi perché non sanno neanche raccontarle, le bugie. Vorrei incazzarmi perché avevo voglia di scopare. Ma siamo sempre lì: come fai a incazzarti in un posto dove chi lavora guadagna 10 dollari al mese? Quante bugie racconterei io se vivessi in un paese così? Ma se mi porto in camera questa qui sarà tutto tremendamente triste come la prima sera all’Avana. E io piuttosto che rifare quella cosa là prendo l’aereo e torno a casa. Rinuncio.

_ “Senti, ho cambiato idea. Non è giusto che ti porti con me. Lasciamo perdere, non mi va. Vado a casa da solo.”
A questo punto ci rimane male lei. Prova a convincermi ma non desisto.
_ “Almeno offrimi un pacchetto di sigarette.”
Transazione accettata volentieri. Un pacchetto di sigarette costa 50 centesimi di dollaro. Lo compro al chiosco del Rumbo, che tiene aperto 24 ore su 24.
(continua)

Friday, January 31, 2003

Jacqueline

tu no tienes la culpa
mi amor
que el mundo sea tan feo



La storia più banale che può capitare a Cuba, ma con qualche imprevisto.

Jacqueline è una jinetera. Ovviamente se glielo dici si offende. Ovviamente la incontro una sera al solito Paraiso. Ovviamente si fa avanti lei. Balliamo un po’, poi ci sediamo a parlare. E’ una mulatta carina, non bellissima. Con una forma del viso particolare, tendente al triangolare, che può piacere o meno. Mi racconta le solite balle: che lei non è di Baracoa, che viene da Moa e che è lì in vacanza, ospite di una zia.
Moa è una cittadina a qualche decina di chilometri da Baracoa, famosa per lo scempio ambientale causato dalle miniere e dalle fonderie di nichel

Mi dice che studia medicina all’università, che è al primo anno anticipato (ha 17 anni). Poi si profonde in un lungo elenco di malattie infettive sessualmente trasmissibili, comprese le precauzioni, i sintomi e i tempi di guarigione. La cosa è persino rassicurante. Senonchè alla fine se ne esce con questa frase: “ le malattie infettive sono quasi tutte sessualmente trasmissibili, tranne poche eccezioni. Per esempio l’AIDS.” Ci rimango di sasso. La guardo basito e faccio “Eh?” – “Ma sei matta? Ma cosa dici? Se c’è una malattia sessualmente trasmissibile è proprio l’AIDS. Lo sanno tutti.” Lei sorride e fa “E va bè.. mi sarò sbagliata, non sono mica un computer…”.

Però è quando la serata finisce che mi fa la fatidica domanda
_”Posso venire a casa con te?”
_“Eeeehhh…mahhh...va bene…”

Perché ho risposto sì? Per tanti motivi, credo: 1. adesso dormo nella stanza con ingresso indipendente che era di Benjamin - 2. comincio a capire di essere in un altro mondo, dove valgono regole diverse - 3. L’offerta è troppa, funziona come la pubblicità: si finisce per capitolare – 4. Sono stanco di essere considerato snob e antipatico perché rifiuto le donne locali - 5. Cosa c’è di male? Sono un moralista io?

(le trovate motivazioni di comodo? credo che abbiate ragione - ma prima di giudicare, almeno fate un salto a Cuba)


Veniamo alla seconda domanda: perché con tutte quelle che ci sono, proprio lei? Sicuramente perché è gradevole, simpatica. Al di là delle molte balle che racconta, ci si parla bene. Mi sembra meno cinica delle altre. Ma il pregio principale è un altro: non è invadente. E non chiede niente. In un posto in cui qualsiasi ragazza si sente in diritto di esigere da te consumazioni a oltranza, in quanto maschio straniero, fa la sua differenza.

Arriviamo a casa. Al locale non mi ero accorto che avesse un fisico così ben fatto. Bene. La storia dovrebbe finire qui. Una notte di sesso e amen. Al massimo con qualche replica le sere successive.

Invece a questo punto cominciano gli imprevisti.
Non abbiamo ancora finito di scopare che qualcuno comincia a bussare insistentemente alla porta. Apro lo spioncino. Sono due ragazzi di colore, maschio e femmina. Lei dice che è un’amica di Jacqueline e che le vuole parlare. Jacqueline si vede che è impaurita. Mi dice sottovoce che non quella non è una sua amica. E poi va a parlarle, sempre da dietro la porta chiusa. Non capisco quello che si dicono ma dopo il dialogo vedo la mia partner occasionale che scappa nel corridoio mentre gli altri due continuano a picchiare alla porta.
A questo punto comincio a insultarli. In italiano, perché quando sei incazzato viene fuori sempre la tua lingua madre. Poi corro a vedere dov’è finita Jacqueline.

La trovo in cucina con un coltello in mano. Di quelli arrotondati e veramente poco offensivi, per la verità.
_ “Che cazzo fai?”
_”Vogliono entrare.. vogliono entrare per rubarti tutto… spaccheranno la porta. Sbattimi fuori ma lasciami il coltello”
_”Ma non dire cazzate” – le prendo l’arnese, la riporto in camera – ed effettivamente i due disgraziati sono ancora lì che picchiano alla porta. Mi affaccio dallo spioncino e dico che sto chiamando la polizia. Pensavo che questo li avrebbe fatti scappare a gambe levate. E invece niente. Continuano a bussare e a dire che vogliono parlare con Jacqueline.
A questo punto comincio a preoccuparmi, anche perché la cosa va avanti per una mezz’ora buona. E decido – extrema ratio - di andare a svegliare i padroni di casa, che non so com’è, con tutto quel casino stanno ancora dormendo.

Vado alla porta della loro camera. Busso. Non rispondono.
Apro la porta, metto dentro il naso. Non c’è nessuno. Andiamo bene. Proprio stasera.
Il telefono in casa non c’è, e quindi non posso chiamare la polizia neanche volendo.

Torno in camera, Jacqueline è rannicchiata in un cantuccio, e quelli fuori sempre lì che tirano pugni allo stipite e urlano. Gli rispondo gridando le più brutte cose che mi capitano in mente, indifferentemnte in spagnolo e italiano. Per un momento viene da pensare anche a me che la porta, molto sottile, potrebbe anche cedere.

A quel punto si accende la luce nel corridoio. Sono i padroni di casa, che stranamente quella sera dormivano in un'altra stanza e finalmente hanno sentito il bailamme. Spiego brevemente la situazione. Loro aprono tranquillamente la porta.
_ “Que pasa?"
I due bastardi dicono che in casa c’è una ragazza loro amica insieme all’ospite italiano e che vogliono parlarle.
Allora i miei affittacamera si rivolgono a Jacqueline e le dicono che se vuole dormire in casa deve fornire i documenti. Lei naturalmente non li ha. La sbattono fuori in un istante.

Provo a spiegar loro che la ragazza aveva paura dei due e potrebbe essere in pericolo. Niente da fare. Loro sono cubani e hanno capito tutto.
_ “Questi sono ladri che agiscono in combutta e ti volevano rubare tutto. Non uscire assolutamente in strada e vai a dormire”.
Chiudono la porta e tornano a dormire anche loro.

Ora: il dubbio che fosse tutta una messinscena all’inizio ce l’avevo anch’io. Ma la cosa non sta in piedi: primo perché ho visto quant’era spaventata Jacqueline, che se recitava era da oscar. Secondo perché i ladri che agiscono in combutta non si comportano così. Come minimo aspettano che il pollo sia addormentato, per rubargli tutto. E infatti non hanno ricavato niente da questa pantomima. Anzi: volendo essere pignoli, Jacqueline ci ha rimesso il reggiseno, che nel trambusto è rimasto in camera mia.

E comunque se la donna con cui stavo facendo l’amore fino a un ora prima adesso magari è in pericolo, mi sembrerebbe moralmente riprovevole non andare ad aiutarla. Così uso il mio ingresso indipendente e scendo in strada. I tre sono in fondo alla calle. Discutono animatamente e si sentono le voci. Mi avvicino. Vedo che Jacqueline è scalza e quell’altra ha i suoi sandali in mano e dice: “Non so cosa farmene di questa roba, la vendo al mercato per tre pesos: io voglio cinque dollari” . Il ragazzo che sta con lei e che ha picchiato la porta della mia stanza per un ora, rovinandomi anche la serata e la scopata, viene da me tranquillamente e, faccia di bronzo, mi fa: “Sono cose tra donne, lasciamole fare”. Ovviamente si becca un vaffanculo. Se fossi un tipo un pelo meno tranquillo si beccava una papagna in faccia, e ci sarebbe stata molto meglio. Le due donne cominciano prendersi per i capelli. Le dividiamo. Però a questo punto per me i due tizi hanno passato il limite.
“Adesso mi avete veramente rotto i coglioni. Io vado alla polizia
E lo faccio.

Capirò solo dopo che ho fatto una cazzata. Ma lì per lì sono furioso e non mi rendo conto delle conseguenze. La cosa più strana è che neanche Jacqueline si rende conto, e mi segue serenamente.
(continua)

Wednesday, January 29, 2003

Machismo-leninismo
I cubani sono machisti da far schifo. Non ce n’è uno che dichiari di avere meno di tre fidanzate. Ma nessuno pensa di avere le corna. Se la loro moglie gli facesse le corna l’ammazzerebbero, chiaro.

Si dice che dopo il film Fragole e cioccolata, molti pregiudizi contro l’omosessualità siano stati superati. Sarà anche così, ma credo che essere omosessuali a Cuba voglia dire non avere vita molto facile. Di omosessualità bisogna parlare sottovoce. Io stesso, siccome non mi porto mai a casa le Jinetere del Paraiso, vengo preso da qualcuno per omosessuale. E un ragazzino arriverà a offrirmisi. Ma sempre sottovoce. Con una discrezione che non è nemmeno lontana parente del baccano delle donne, che ti si gettano quasi letteralmente addosso.
Una ragazza (Jacqueline) arriverà una volta a dirmi che sono omosessuale perché mi lascio toccare il sedere dalle donne. Nessun macho cubano lo farebbe mai.
Ed effettivamente, anche nelle discoteche, le donne si permettono a volte di metterti la mano sui genitali. Mai sul sedere.

La rusa de Baracoa
La rusa, ovverosia “la russa”.

Passeggiando per il lungomare di Baracoa ci si imbatte in un piccolo hotel color mattone, ben tenuto. Al piano terra c’è una veranda dove si può mangiare il pesce. E’ grazioso, ma non ci si farebbe particolarmente caso, se non ci fosse dietro una storia. Una di quelle storie minori che compongono il mosaico della grande Storia. E che merita di essere raccontata. Lo faccio integrando la scheda che sta sulla mia guida con la memoria del racconto che mi è stato fatto direttamente sul posto. Mi scuso per eventuali inesattezze, dovute al tempo che è passato.

L’hotel si chiama appunto “La rusa” e la russa a cui fa riferimento è Magdalena Rovieskuya, nata a San Pietroburgo- Russia, figlia della nobiltà patrizia. Al momento della rivoluzione è una bambina e la sua famiglia viene completamente sterminata. Si salvano solo lei e la zia, grazie ad un congiurato coi rivoluzionari che non se la sentirà di mettere a repentaglio anche le loro vite e gli aprirà una via di fuga oltre gli Urali, dove l’insurrezione per il momento non ha ancora vinto. Da questi luoghi riusciranno a riparare in Turchia e da lì a Parigi.

E a Parigi Magdalena si stabilisce per tutta la gioventù. Studia canto e pare sia “bella come una dea” e molto affascinante. Si affermerà come soprano e questo la condurrà a cantare per i teatri più famosi d’Europa: L’Opera di Parigi e La Scala di Milano innanzitutto. A un certo punto molla il canto per amore del marito, Albert Ménassé Baruch, uomo d’affari, e si trasferisce con lui negli Stati Uniti.

Messi in difficoltà economiche dalle conseguenze della crisi del 29, decidono di spostarsi all’Avana, dove lui aveva alcuni interessi da seguire. Dopo alcuni anni, stanchi forse della vita della capitale, i due emigrano in questa cittadina isolata dal resto di Cuba, raggiugibile solo via mare. Nel 1948 vi aprono un albergo. Desiderosi di tranquillità ed appagati? Forse. Ma per quelle strane sorprese che la vita riserva a volte, la storia non finirà qui.

Infatti è a questo punto che l’aria di Cuba si increspa. E il vento che comincia a spirare, e che tira proprio dall’est dell’isola, è un vento che si farà tempesta. E’ il vento della libertà che reclama la fine dei tiranni. E’ il vento dell’emancipazione e della giustizia sociale. Del riscatto popolare e del progresso. E la rusa? La nobile e ricca possidente cui la rivoluzione di casa sua ha sterminato la famiglia, l’affascinate dea che parla perfettamente cinque lingue, l’ex cantante lirica ritiratasi nell’ angolo più remoto e tranquillo dell’isola cosa fa? Ovvio: sposa la causa degli insorti.

Metterà il suo albergo e i suoi soldi a disposizione di quelli che allora sono pochi ribelli dalle lunghe barbe. I loro nomi è inutile farli perché li conoscete tutti. Anzi: ne conoscete solo due, ma sono proprio quei due che frequenteranno maggiormente l’hotel.

Il primo atto della nuova amministrazione di Baracoa, questo è bello ricordarlo, sarà l’abolizione della segregazione razziale, che ancora vigeva sotto Batista. A Magdalena verrà offerto il posto di ambasciatrice in Unione Sovietica, che lei rifiuterà perché, dice, non ha dei bei ricordi. Rivestirà comunque alcune cariche pubbliche importanti, prima di spegnersi nel 1978.
Non ci è dato sapere se negli ultimi anni si fosse accorta che, anche in questa rivoluzione, qualcosa non stava funzionando.

Suo figlio, Renè Frometa, è vivo e fa il pittore. Conserva i cimeli della madre e li mostra ai turisti raccontandone la storia. Naturalmente sono andato a trovarlo.
(continua)

Monday, January 27, 2003

Il guercio, Henry, Antonio e gli altri
el tuerto - il guercio - è uno dei più bei personaggi che ho conosciuto a Baracoa. Lo chiamano così per via dell’occhio di vetro. E’ un musicista di strada. Chitarra, maracas, percussioni varie nelle jam session improvvisate en la calle. Di solito in angoli bui vicino al lungomare. E’ bravissimo, l’ho visto inventarsi all’istante una canzone su me e Benjamin. Tutta in rima. Un free-styler d’eccezione. I versi che trovate all’inizo del paragrafo su Baracoa vengono ovviamente da una sua canzone. In qualsiasi altro posto al mondo si esibirebbe in un locale o per strada e sarebbe a posto. A Cuba no, è costretto a noleggiare la moglie (me lo dirà lui stesso) e a cercare ogni sera qualche turista che assista ai suoi spettacolini per rimediare qualche dollaro e una bottiglia di ron. E infatti ogni sera viene a cercarmi, obbligandomi ancora una volta a fare i conti con l’odiosa sensazione di essere un portafoglio ambulante. Finirò con l’evitare anche lui.

La vita che faccio a Baracoa, a livello di spesa, è il contrario di quella che facevo all’Avana. Grazie alla presenza di Benjamin e alla voglia di prolungare il più possibile la permanenza, sono diventato un risparmiatore incallito. Sono capace di vivere con 3-4$ al giorno, escluso ovviamente l’alloggio, che di dollari ne costa dieci. Mangio pochissimo e di solito le pizzette da tre pesos che si comprano nei banchetti. Ho rinunciato anche all’aragosta della mia padrona di casa, che costa 5$.



_“A Cuba se non paghi ti fai le seghe”. E fa anche il gesto. E’ diretto il mio amico cubano Antonio. E anche un po’ cinico. Ma non posso fare a meno, in un certo senso, di essergli grato per uno dei pochi momenti di sincerità che mi è capitato di ascoltare da un locale. Uno dei pochi momenti in cui l’interesse e l’autocensura non hanno prevalso.

C’è una ragazza seduta sulla panchina di fronte a noi. Antonio comincia a dirle che io non voglio pagare il sesso perché sono un avaro. Lei è una mulatta giovane, carinissima. Mi piace un sacco. Però è proprio una di quelle che vedo tutte le sere al Paraiso, uno dei pochi locali di Baracoa (che frequento anch’io), a cercare turisti. In più è la sorella del Chino, il principale ruffiano della città, uno che tutte le sere porta a Baracoa tre o quattro ragazze nuove per adescare gli stranieri.

_ “Perché non vuoi pagare?”
_ “Non mi piace”
_ “Cioè se io vengo con te dopo non mi paghi?”
_ “Ti ho detto che non mi piace pagare”
_ “Sei un tirchio! Sei uno spilorcio! Perché non te ne vai?”
_"Me ne andrò tra qualche giorno”
_ “Perché non te ne vai adesso?”
_"Perché non te ne vai tu?”
_"Io sono a casa mia, sei tu che te ne devi andare.”
[Effettivamente non fa una grinza, e adesso cosa le dico?]

E allora riprende lei: capisco che mi insulta ma non capisco cosa dice. Poi viene verso di me e comincia a pizzicarmi. La devo spingere via.
A quel punto mi dice che se voglio andare con lei le devo dare almeno un dollaro."
_ “ Io sulla fronte ho scritto: 1 dollaro. Chi viene con me mi deve dare un dollaro.
Quando si dice vendere cara la pelle


Henry è una tra le più brave persone che abbia incontrato a Cuba. Molto più di Antonio, che spesso cerca di fare il furbo. E’ estremamente dignitoso, non mi ha mai chiesto né soldi né regali (alla fine gli regalerò di mia spontanea volontà tutte le medicine che mi ero portato per il viaggio, tra cui due ricercatissime scatole di Aspirina e Tachipirina). Condivide con Antonio il curriculum di ex allievo dell’accademia militare e di attuale studente di una scuola di lingue dell’Avana, che prepara chi vuole lavorare col turismo.

_ “ Sono disoccupato e devo passare il tempo guardando in faccia la gente che passa. E’ da una vita che studio e non ho in tasca neanche tre pesos per comprarmi una pizza. Se fossi un jinetero o uno come el Chino avrei sempre le tasche piene di dollari.”

_"E adesso che hai finito il corso cosa farai?”

_ “Spero di lavorare in un posto come il Rumbo (la catena di caffetteria/bar per turisti che tiene aperto h 24/24 - nda), ma se non hai i giri non ci entri”

A chiarirmi ulteriormente le idee su come funzionano le cose con le donne ci pensa lui. Una sera mi presenta una sua amica. Una che veste alla cubana, molto dimessa.

_ “Tu lo vedi che lei non è una jinetera. Lo vedi come veste. Non l’hai mai vista con uno straniero, non l’hai mai incontrata in un locale. Sta sempre qua con noi, in piazza”
Vero.

_"E’ una ragazza molto religiosa, testimone di Geova (come molti in quella zona dell’isola -nda). Io te l’ho presentata: se finite a letto insieme lei non ti chiederà mai nulla. Ma tu non puoi far finta di niente e non darle niente. Perché lei ha un figlio piccolo.”
Eviteremo il problema e non andremo a letto insieme

Mi dirà poi il mio amico pescatore: “ La prostituzione non è solo con gli stranieri. Certo, a loro puoi chiedere di più. Ma lo sai che ci sono delle donne che vanno coi cubani per 5 pesos, solo per comprare il latte ai loro figli?”

Chiude il cerchio una ragazza che incontrerò quando tornerò all’Avana, l’ultima notte.
_ “ Quasi tutti i rapporti sessuali a Cuba sono a pagamento. Tranne ovviamente quelli tra marito e moglie e tra fidanzati stabili. Anche per andare con connazionale le donne si fanno quasi sempre pagare”
E così scopro con infinita tristezza che il periodo éspecial non ha costretto gli isolani a rinunciare solo all’aragosta, ma ha demolito la più grande istituzione del costume locale: l’adulterio passionale.
(continua)

Friday, January 24, 2003

Alla foce dello Yumurì
Bisogna festeggiare questo nuovo gruppo informale ed estemporaneo che si è formato. Benjamin, che è il più intraprendente, organizza una grigliata alla foce dello Yumurì, un fiume che scorre dentro una pittoresca valle ad alcune decine di chilometri dalla nostra cittadina.

Per raggiungere il posto occorre fare un ultimo tratto a nuoto. Però ne vale nettamente la pena. Il posto è splendido.

A un certo punto arrivano i cuochi con un maialino da arrostire. Solo che è vivo. Il malcapitato viene sgozzato sul posto, dissanguato, depilato alla meglio e impalato e arrostito a fuoco lento per un paio d’ore. Alla fine viene sventrato e riempito di riso. A questo punto ce lo mangiamo. Siccome non abbiamo piatti, né posate, né stoviglie,ce lo mangiamo con le mani, da selvaggi. Avvolto al massimo dentro le foglie di palma, che fanno da supporto. Ogni tanto attaccato alla pelle si trova ancora qualche pelo. Ma non è il caso di fare i difficili, che lo facciamo già i restanti 11 mesi e mezzo l’anno, in Europa e Nord America.

Il restante tempo lo trascorriamo ovviamente tra bagni, chiacchiere e risalendo la valle ai bordi del fiume, in mini escursioni. Nonostante la babele di lingue ci capiamo piuttosto bene. Da notare che a dominare non è l’inglese, sono il francese e lo spagnolo. E per la prima volta mi tocca vedere gli anglofoni che si adattano a parlare un’altra lingua: fa un certo effetto vedere due americani (assolutamente wasp) che parlano spagnolo anche tra di loro. Mi diranno poi che in certi ambienti, oggi come oggi, fa molto tendenza.

Provate a dire di cosa si parla tra maschi? Del fatto che le cubane ci stanno così facilmente che poi alla fine chiedono sempre dei soldi. Sempre. Questa cosa l’hanno toccata tutti e ha scandalizzato tutti. Quando torneremo a casa racconteremo anche noi ai nostri amici la favola che le cubane ci stanno in cambio di una cena e di una maglietta? O la smetteremo di dire cazzate e riferiremo la cruda verità?

Scopro che l’amica di Itziàr non sta col brasiliano, viaggiano solo insieme. Le spagnole sono troppo avanti. E infatti, tornati a Baracoa, riesco a portarla fuori a cena. A tavola discutiamo di politica. Lei è molto comunista, ma siccome è di Barcellona, ho buon gioco nel citarle la CNT (il sindacato anarchico), la grande spinta idealistica del 36 naufragata con la guerra civile, i torti degli stalinisti, le ragioni delle concezioni etiche antiautoritarie dei libertari. E’ il mio piccolo capolavoro. Praticamente la convinco delle mie ragioni nello spazio di un pasto. Mi guarda con ammirazione, si vede. Però il mio vero obiettivo - Bakunin mi perdoni - era un altro (provate a dire quale..). E lì non va.

Americani
E’ noto che i cubani nella loro isola sono prigionieri. Ma che dire degli americani, che per venire a Cuba legalmente devono essere esplicitamente autorizzati a farlo dal loro governo? Anzi: per la verità, tecnicamente, per un cittadino degli Stati Uniti d’America venire a Cuba non è vietato. E’ vietato spenderci soldi. A meno di non avere la famosa autorizzazione.

Tra gli Yanqui che ho conosciuto io, solo la ragazza l’aveva. Gli altri due, quando torneranno, in base alla legge Helms-Burton (approvata dal presidente Clinton), potrebbero incorrere in multe fino a 50.000$ e all’eventuale confisca delle proprietà personali. Se le autorità saranno clementi. Perché diversamente, in base al Trading with the Enemy Act (Decreto sul Commercio con il Nemico) potrebbe scapparci anche l’arresto e la reclusione fino a 10 anni sommata a ulteriori sanzioni fino a 250.000$. Mi dicono i due ragazzi che fino ad ora non risulta che nessuno sia stato incarcerato. Qualcuno è incorso nelle sanzioni pecuniarie.

Gli americani che vengonoa Cuba, di solito, lo fanno a proprio rischio e pericolo. Partendo dal Canada o dal Messico, paesi che invece hanno un rapporto privilegiato con l’isola. Siccome il governo americano vieta l’accesso sul proprio territorio a tutti quelli che hanno avuto rapporti con il nemico, lo stato cubano non applica il visto sul passaporto ma lo sostituisce con la tarjeta del turista, praticamente un foglietto che ti dà il diritto a stare sul suolo di Cuba per un mese e che si può acquistare in qualsiasi agenzia di viaggi per 20$. Se stai di più è sufficiente acquistarne un altro.





Nel gruppo che conosco a Baracoa siamo tutti turisti del tipo molto povero e risparmioso. Ben diversi da quelli a cui sono abituati, per esempio, all’Avana. Ma Benjamin ci batte tutti. Penso sia uno dei turisti più tirchi che abbiano mai visto in loco, tira all’inverosimile sul prezzo di ogni cosa. Da gran figlio di puttana, di quelli veramente adatti a girare il mondo, è l’unico che riesce a portarsi a letto ogni sera una jinetera diversa senza mai pagarla. Con faccia tosta incredibile, dopo averci scopato finge di indignarsi alle loro richieste o fa finta di non capire. Si è trovato persino una quasi-fidanzata. Talmente brutta da accettare di stare con lui anche gratis. O meglio, in cambio di qualche pasto ogni tanto. L’ho visto portarla al ristorante un paio di volte. La notte, quando lei se ne va dalla sua camera per tornare a casa, le lascia talmente pochi pesos che non sono nemmeno sufficienti a pagarsi il ritorno in risciò, dato che lei abita fuori città.
Ci proverà senza successo anche con Berna, la ragazza turca, e se ne andrà da Baracoa una settimana prima di me.

Il ron
E’ quello che noi chiamiamo rum. La bevanda nazionale, ottenuta distillando il prodotto della fermentazione della melassa di canna.
Uno dei marchi più noti a livello mondiale, Bacardi, ha una storia che si intreccia con quella dell’isola. E’ originario di Santiago di Cuba. Inizialmente i proprietari appoggiano la rivoluzione, ma dopo la nazionalizzazione dell’azienda vanno via. E a Castro gliela giurano. Non si contano i complotti che hanno ordito per rovesciarlo o eliminarlo fisicamente. Negli Stati Uniti sono i principali lobbisti delle leggi sull’embargo.

A Baracoa ci sono dei banchetti, per strada, che il ron lo tengono nelle damigiane. Tu vai là con una bottiglia vuota e te la riempiono. E’ il ron dei poveracci, quello che costa meno, spesso annacquato. Tutti i cubani “normali” bevono quel ron. A Baracoa anch’io bevo quello. Altro che Havana Club.
(continua)

Wednesday, January 22, 2003

Baracoa
Qual es la riqueza de Baracoa ?
Coco, Cacao y Cafè (…)


Baracoa è una gioiellino all’estremità sud orientale dell’isola. E’ stato il primo insediamento europeo sull’isola, la prima città della Cuba post-colombiana. Per raggiungerla ci vogliono quattro ore di macchina da Santiago.

Si passa per Guantanamo, si vedono i posti di blocco davanti alla strada che porta alla celeberrima base militare americana. Che in realtà dista diversi chilometri dalla città ed è sul mare.

Si attraversa una montagna, lungo una strada, la Farola, che è un vanto del regime. Prima della rivoluzione infatti a Baracoa ci si poteva arrivare solo via mare. Adesso, oltre che via terra, si può prendere anche il piccolo aereo da turismo che fa servizio diretto con l’aeroporto di Santiago, se uno ha fretta e ha un po’ di soldi da spendere.

Baracoa è dunque una piccola località con una montagna alta e scoscesa alle spalle e l’oceano di fronte a sè. Questa cosa gli crea alcuni vantaggi: innanzitutto un microclima particolare che consente una vegetazione spontanea e rigogliosa di alberi da frutta. Cocco, ananas e banane si trovano un po’ dovunque. In più, e questo è unico in tutta l’isola, c’è il cacao. Ed è l’unico posto dove anche un cubano normale può gustare il cioccolato. Di solito cioccolato in tazza, che viene servito per pochi pesos nei bar statali.

Poi c’è il gelato. Idem come sopra. Certo, non puoi scegliere i gusti. Ogni giorno c’è un gusto (fragola, cacao o vaniglia) ed è quello e basta. Certi giorni non c’è , e amen. Se c’è ti viene servito dentro bicchieri di plastica che poi vengono risciacquati, assieme al cucchiaino di metallo, e riempiti di nuovo per il prossimo cliente. Il tutto non rispetta proprio gli standard igienici occidentali, però devo dire che mi è sembrato molto bello: ti insegna a non essere schizzinoso. E poi costa pochissimo. Duecento lire, o qualcosa del genere.

La spiaggia di Baracoa è a circa un chilometro dal centro abitato. Quando ci vado io è quasi sempre deserta. Fa eccezione solo la domenica.

La spiaggia finisce dove comincia il monte, interamente coperto dalla vegetazione. E proprio lì in fondo c’è il posto migliore, si chiama la boca del Miel , dal nome del rio che sfocia in quel punto. Dolce come il suo nome, caraibico fino al pelo della sua acqua. Tiepido e lentissimo. Subito dietro la spiaggia e dietro il fiume c’è un minuscolo villaggio di pescatori che vivono in baracche di legno.
Le nuotate nel Miel all’ora del tramonto, in un silenzio e una calma totali, sono tra i ricordi più belli che mi sono rimasti del viaggio.

A Baracoa alloggio nella casa di una coppia di professori di scuola. Lui bianco, barbuto e brizzolato, lei mulatta e piuttosto signorile. Guardandoli mi viene da pensare che forse gli insegnanti hanno dei tratti caratteristici che li accomunano in tutto il mondo, perché li vedrei benissimo anche in un liceo italiano. Hanno il fisique du rôle.

Poi c’è l’altro ospite di casa: Benjamin, un francese. Un gran figlio di puttana. Amichevolmente, si intende. Ma questo lo scoprirò solo dopo un po’. Io me la cavo discretamente col francese e lui è molto socievole, pur senza essere mai invadente. E così facciamo conoscenza.

Sta facendo una specie di giro del mondo, o qualcosa del genere. Nel senso che non ha né una meta né dei tempi precisi, ma è fuori da casa da otto mesi e pensa stare in giro ancora un paio d’anni, tra pacifico e sud america. In Francia faceva il venditore di piscine (italiane). A un certo punto si è licenziato ed è partito.

A Baracoa ci sta da un mese e mi fa conoscere tutti lui. Due ragazzi cubani, Henry e Antonio, altri due francesi, François e Michel. Poi insieme conosciamo tre americani (Alfred, Steve e Lucy), due ragazzi e una ragazza, poi ancora una ragazza turca, Berna e una norvegese, Ingrid che si sono conosciute a Santiago e adesso viaggiano insieme. Infine, provate a dire chi incontro a Baracoa? Avete indovinato: la spagnola amica di Itziàr, che si chiama Carol (una mora da giù di testa) con Frederico, il brasiliano.
Piacevole invenzione, Baracoa
(continua)

Saturday, January 18, 2003

Per essere sinceri, avevo molta paura degli italiani che avrei incontrato a Cuba. E dell’impressione che avrei riportato a casa, riguardo ai miei connazionali nel paese di Bengodi. In realtà ne ho incontrati pochi e con quei pochi ho avuto rapporti molto superficiali, di solito limitati a qualche conversazione, spesso scambiata nel corso degli spostamenti tra città e città. Ci sono però un paio di soggetti che meritano di essere raccontati. Il primo lo incrocio andandomene da Trinidad.

Il coatto
Il Pullman dei ricchi, quello che uso io, viaggia di notte. Percorre tutta l’isola, dall’Avana a Santiago, facendo tappa nelle città principali. Io sto andando a Camaguey. A un certo punto sale un tizio, un bianco ciccione rasato, in tuta mimetica, che mi si siederà accanto. Prima ancora che si sia seduto sento già che parla romanesco. Vorrei far finta di niente, ma se scoprisse che sono italiano e non gliel’ho detto sarebbe imbarazzante. Così mi qualifico io per primo e cominciamo a conversare.

E’ incredibile. Sembra che sia scappato dal set di un film di Carlo Verdone. Una macchietta.
Al polso tiene l’orologio più grande che abbia mai visto, peserà due chili.
_ “Ahò, manda n’segnale al satellite, me possono trovà n’tutto l’mondo. Solo che adesso il satellite è spento. M’aa venduto n’amico mio appassionato d’elettronica pe’n miione”

Sta andando a Ciego de Avila.
_ “Bella Ciego, na bbella città. Ce so tutte ‘e modelle che partono pe’ Cayo Coco

(Cayo Coco è un isolotto, incantevole pare, riservato solo ai turisti stranieri)
A proposito di Ciego de Avila la mia guida dice: “Evitate di fermavi in questa città che non ha assolutamente nulla da offrire.”

_”Sai com’o scelta io Ciego?”
_” Eh, come?”
_ “Perché si chiama Ciego de Avila. E che vor’dì Avila? Aquila. E de n’do so’io? Vivo a Roma ma so’ dell’Aquila”
Praticamente un genio

“Vedi, c’ho n’ po’ de casini ultimamente a Ciego. Perché sò un tipo un po’ così…vedi..me so’ fidanzato co’ du ragazze contemporaneamente”
Uau, ma allora sei veramente un Casanova

“Ahò, te do ‘na dritta: i posti so’ tutti tranquilli, ma tu sta sempre all’occhio. Te devi prende na cosa come la mia… - tira fuori un coltellino a serramanico – Vedi, si te capita na’situazione n’po’ così… tu lo tiri fuori…lo fai vedè..ce cominci n’po’ a giocà…. a me sto gingillo m’ha sarvato più de ‘na volta”
Peccato.

Camaguey
Arrivo alle 4 di notte. Ovviamente non ho un alloggio. Problemi? Neanche uno. Naturalmente ci pensa il tassista. Gli dico che voglio spendere non più di 10 dollari e lui mi porta in una villa nella prima periferia. Trovo il padrone di casa sveglio e ben lieto di accogliermi. Mi dà una camera e mi dice che ci sono due ospiti anche in quella di fianco alla mia. E qui c’è un gioco di coincidenze che mi accompagnerà per tutto il viaggio.
Provate a dire chi è uno di quei due ospiti? Itziàr. Ebbene sì, la spagnola che avevo perso di vista a Trinidad. Com’è piccola Cuba.
Assieme a lei c’è un curioso ragazzo inglese, Stephen, anche lui già incontrato nella cittadina coloniale. Molto timido, poco più che ventenne, lavora in un’industria aeronautica nel suo paese e si sente molto working class. Mi sembra che avesse in programma di girare buona parte del centro-sud america per diversi mesi.
Del mio breve soggiorno a Camaguey, la città delle chiese, non c’è molto da dire. Si può sintetizzare così: un ron consumato alle 10 del mattino, da vero cubano, in un locale da cubani; una visita al parco, a qualche chiesa, sempre con Itziàr e Stephen. Al pomeriggio andiamo al cinema. Danno un film spagnolo, una commediola sentimentale assolutamente innocua. Mi rendo conto che il mio spagnolo, nonostante la pratica, resta abbastanza scarso perché non riesco quasi mai a seguire i dialoghi.

La musica
A Camaguey, parlando con la gente del posto, ho la conferma di due fatti:

1. Buena Vista Social Club, il film di Wenders, a Cuba non è passato. Non è stato proiettato. Tutti sanno che esiste questo film, che ha rilanciato il genere più tradizionale della musica cubana, il Son, ma nessuno l’ha visto.

2. Adesso tutti conoscono i pezzi che vengono suonati nella pellicola: non c’è complessino musicale che si esibisce ai turisti che non suoni Chan Chan, El cuarto de Tula, eccetera. Prima di Wenders, Ibrahim Ferrer, Compay Segundo e compagnia non se li ricordava nessuno.

Il son, mi par di capire, puzza di vecchio. A Cuba i giovani ballano salsa oppure la dance più tamarra. La cosa più incredibile è che la salsa più ascoltata è di importazione dominicana: il cantante che va per la maggiore è Elvis Crespo, praticamente obbligatorio in tutte le sale da ballo. Il rock, in tutti i suoi derivati, è un illustre sconosciuto. Ci può essere qualche timida spruzzata di ragga della vicina Giamaica, o persino di rap, rigorosamente controllato (gli Orishas, ad esempio, sono ammessi dal regime e si sentono parecchio).

A Santiago, entrando in un negozio di musica, ovviamente infarcito di Son dedicato ai turisti, scoprirò che i cd sono carissimi: costano più che da noi. Immagino che gli amici degli amici di Fidel si papperanno anche buona parte dei lauti diritti d’autore che ora piovono da tutto il mondo.
(continua)

Thursday, January 16, 2003

Ai caraibi fino al collo
Sotto Trinidad c’è una zona che è stata per molto tempo il fulcro della produzione di canna da zucchero a Cuba. Ora non è più così, ma comunque la canna si coltiva ancora e gli zuccherifici (ingenios), impiantati nel XIX secolo da profughi francesi in fuga dalla rivolta degli schiavi scoppiata ad Haiti, danno il nome alla valle, detta appunto Valle de los Ingenios. Pare che meriti una visita.

La mia guida (Lonely Planet), dice: “Fortunatamente, anche per coloro che sono privi di proprio mezzo di trasporto, è facile visitare la valle. Il mercoledì, il venerdì e la domenica si effettua un escursione (…) mediante un vagone ferroviario ricostruito”.

Così vado alla stazione. Cioè: entro in un edificio che tutti mi indicano come la stazione e mi ritrovo in un collegio, una scuola, un orfanotrofio, devo ancora capirlo precisamente. Un posto molto diroccato, ma con ampie camerate, che ospita dei ragazzini. Da una breccia nel muro di cinta del cortile si accede alla stazione. Cioè a un tratto di binario, perché non c’è altro, nel quale si fermano i treni. Mi guardo intorno un po’meglio e vedo anche la biglietteria. Bene. Sul binario c’è già il mio vagone. Bene. Solo che non è affatto ricostruito. Infatti, mi dicono i ferrovieri, il treno che sto cercando io è sospeso, ma quello che sta partendo fa lo stesso tragitto. Meglio ancora, sto fuori dall’apartheid turistico. Meglio ancora: il biglietto ha un prezzo cubano, praticamente è gratis.

Poi salgo sul vagone e mi rendo conto di essere un marziano. Per la prima volta ho l’impressione di stare nel terzo mondo. Lo si vede negli arti malformati di alcuni vecchi. Nelle bocche che non hanno mai visto un dentista, nei vestiti poveri, da guajiros (contadini), di parecchi viaggiatori. Anch’io porto vestiti poveri a dire la verità. Ma è lo stile straccione occidentale, che è tutt’altra cosa.

Quando il treno parte mi rendo conto che avrei voglia di vedere gli zuccherifici da fermo. Tanto posso prendermela con comodo, alla caraibica, senza problemi di tempo e con molto spirito d’avventura. E siccome l’unico nome che mi ricordo della guida è l’Azucarero Central, chiedo a una signora che mi siede di fianco se mi sa indicare come ci si arriva. Lei mi risponde che scenderà alla stessa fermata a cui devo scendere io e poi mi indicherà.

Detto fatto, mi ritrovo a margine di una strada battuta dal sole dei caraibi ad aspettare la uaua, il mezzo pubblico dei proletari, insieme a una decina di indigeni. Tutto intorno i campi di caña - la canna da zucchero - la terra rossa, i colori del tropico. Risalta ancora di più, sotto quel sole feroce, la differenza tra la mia pelle diafana e quella tostata dei nativi. Insieme agli stracci colorati che porto addosso mi rende ancora più estraneo a quella situazione.

Per farla breve, lo zuccherificio centrale non è altro che un mastodontico impianto industriale. Quando ci arrivo è tutto fermo. Forse perché non è stagione. O forse perché è domenica. Chiedo ai custodi se si può visitare. Mi guardano come un matto, e probabilmente hanno ragione.

A quel punto decido di rientrare. Muovendosi con quel tipo di trasporto pubblico sarebbe impossibile fare il giro degli zuccherifici storici e poi, detto tra noi, me ne frega vermente poco. Era solo un pretesto per lanciarsi on the road .

E in effetti la cosa bella di questa gita assolutamente inconcludente è la sensazione di essere finalmente ai caraibi fino al collo. L’immagine che mi resta è quella di me in piedi nel cassone di un camion strapieno che avanza rumoroso tra i campi assolati di canna da zucchero e poi arranca sulla salita che porta a Trinidad. L’immagine che mi resta è quella di me che aspetto sotto una tettoia guardando in lontananza se il camion arriva. Che chiedo informazioni sulla direzione giusta da prendere.

Stavolta non ci sono filtri e non ci sono scocciatori. Intorno a me solo gente comune, i mezzi con cui mi muovo sono quelli della gente comune, i tempi sono quelli comuni ai caraibi. Mi dispiace un po’ solo non aver visto il Mirador: l’alta torre che serviva per sorvegliare gli schiavi nelle piantagioni. E poi la figura fatta con quel tipo: dopo avergli chiesto qualche informazione, mi chiede cosa ci faccio lì. Rispondo che sono un turista e alloggio a Trinidad.
_Ah, sì? E quanto spendi per il tuo alloggio?
_ "Quindici dollari"
Un po’ sconcertato: _ “ Ma 15 dollari al mese o 15 dollari al giorno?”
_ “Eehm…15 dollari al giorno”
Ho l’impressione che mi guardi malissimo. Magari non è vero.


Negli immediati dintorni di Trinidad, praticamente alla periferia del borgo, ci sono alcune grotte molto belle. Quelle che ho visto io erano gestite da un grande albergo.

Una è stata trasformata in discoteca ed è semplicemente spettacolare, La Cueva. Dentro, a ballare la dance commerciale, turisti stranieri e cubani ricchi. Dove questi ultimi sono decisamente i peggiori. Maranza fino all’inverosimile. Edonisti e narcisi a livelli che si fa fatica a trovarne anche qui da noi. Agghindati supertrendy. Firmati dal capello alle punte dei piedi. L’unica cosa che li accomuna ai loro compatrioti qualunque è la bravura nel ballo di coppia.

Poi c’è l’altra grotta, che è addirittura mozzafiato. Con 1$ è possibile visitarla con tanto di guida (di una gentilezza squisita, peraltro). Se vi capita di andare a Trinidad ve lo consiglio caldamente.
Un’ultima curiosità a proposito di Trinidad: l’ufficio della polizia di stato non c’è. Che ci crediate o no, a vigilare c’è solo una compagnia di polizia privata. Misteri del socialismo reale.
(continua)

Tuesday, January 14, 2003

Trinidad
L’arrivo a Trinidad è da far west. Pomeriggio. Sole a picco. Stazione dei pullman. Edifici coloniali tutto intorno. Io sono il primo a scendere. Davanti a me, a 50 metri, c’è una corda che due persone tengono tesa. Dietro la corda una massa di indigeni vocianti, con le braccia tese e i cartoncini nelle mani, che si devono aggiudicare il turista appena arrivato. Convincerlo a venire a dormire nella loro casa particular.

Faccio su il mio bagaglio, non aspetto nessuno, e tiro addosso alla folla diretto diretto, con sul viso l’espressione più apatica e indolente di cui sono capace. Appena passata la corda vengo ovviamente sommerso dalla marea urlante, sudante, che mi strattona e mi tira per un braccio per attirare la mia attenzione. Io niente. Tiro dritto come se non esistessero, scuotendo solo leggermente il capo e ripetendo a mezza voce continuamente “No, gracias” . In realtà non so bene cosa ho intenzione di fare, dove ho intenzione di andare. So solo che voglio uscire a tutti i costi da quella calca.
A un certo punto dietro di me sento una voce femminile che dice “Tu ères Davide” . Lì per lì trasalgo. E ovviamente sono fatto. Mi fermo, mi giro, la guardo. E' una donna di mezza età dall'aspetto piuttosto distinto. Mi dice: “Seguimi”. E io la seguo. Ha vinto lei. Sarà lei la mia padrona di casa.

Capisco un attimo dopo come fa a sapere il mio nome: l’impiegata che mi ha venduto il biglietto all’Avana ha telefonato che stavo arrivando. Me lo aveva detto che mi avrebbe trovato da dormire. Ma lei non sapeva che mi sarei fermato a Cienfuegos strada facendo. Quindi questa donna mi sta aspettando da ieri l’altro.

Visitare Trinidad, un must per il turista europeo, è un po’ come andare in Italia a San Gimignano. Solo che anziché in un borgo medioevale, completamente morto e lasciato in eredità ai turisti, sei in un borgo coloniale cinque-seicentesco, quasi completamente morto e lasciato in eredità ai turisti. Però è molto carino, e tre-quattro giorni di soggiorno può meritarli.

Tra l’altro Trinidad è a una decina di chilometri dal mare, e quindi si può unire la visita al borgo storico con la spiaggia e il bagno.
A Trinidad incontro i primi bambini che chiedono insistentemente dei regali. Spesso le scarpe. La cosa mi colpisce perché fino ad ora erano gli adulti ad aver avuto il monopolio della scocciatura e dell’accatonaggio.

Poi incontro Itziàr, una catalana di origine basca, che mi prende in giro perché vado al mare in taxi.
_ “Sei proprio un borghese, io ci vado con la uaua
Non è molto carina, ma in compenso è simpatica. E ha quell’aria cosmopolita che hanno spesso le spagnole, specialmente le catalane. Mi racconta che è arrivata a Cuba con una sua amica e che studia medicina. La sua amica adesso sta girando l’isola con un ragazzo brasiliano che studia all’Avana e che hanno incontrato là, lei è rimasta per conto suo. Per una coppia di italiane sarebbe impensabile.
La perdo di vista quasi subito, ci scambiamo gli indirizzi ma poi non passeremo a trovarci.
Però la sua presa in giro mi ha punto nel vivo, e così mi tocca andare al mare con la uaua anche a me.

La uaua è il mezzo di traporto dei cubani. Praticamente sono dei camion che fanno da corriere di trasporto pubblico. Si aspetta alla fermata finchè non passa il primo, non ci sono orari. Poi si sale nel cassone e si va. Costa pochissimo, delle volte si fa colletta tra tutti o non si paga neanche. Molto pittoresco per uno straniero. E’ una delle poche occasioni che ci sono di assaggiare la Cuba vera, provare vagamente cosa significhi essere cubano.

Quando vedo il mare scendo. La spiaggia è affollata, senonchè, consultando la guida scopro di essere nella zona in cui sfocia il collettore fognario della cittadina. Il libro consiglia di andare qualche chilometro più avanti, dove la spiaggia è più bella e il mare pulito. Proseguo a piedi. Avrò fatto qulache centinaio di metri che mi passano di fianco tre tizi in bicicletta. Due uomini e una donna.

_”Hey amigo, salta su che ti diamo un passaggio” E così mi faccio caricare da uno di loro.
I tre sono marito, moglie e cognato e stanno andando pure loro alla spiaggia.
_”Amigo, come mai sei senza una chica?” _ “Mah, è che qui a Cuba c’è una situazione un po’ particolare…”
_ “Ma mira la chica, no te gusta?” e indica sua moglie.
La poveretta, con un certo imbarazzo, è costretta a sorridermi. Rispondo anch’io con un sorriso imbarazzato
_“Molto carina…” .

Effettivamente era molto carina. Passiamo di fianco a un chiosco lungo la strada, mi chiedono se gli offro da bere. Mi sembra giusto per sdebitarmi del passaggio e lo faccio. Passa un altro chilometro sì e no e siamo arrivati alla spiaggia. C’è un altro chiosco e mi richiedono se gli rioffro da bere. Gli rioffro. Andiamo in spiaggia.

Una delle cose che scopro un po’ imbarazzanti nell’andare sull’arenile in compagnia dei locali, è che tu sei sempre l’unico che ha un telo dove stendersi. In un paese nel quale gli asciugamani sono strettamente razionati, si tratta di un lusso insostenibile.

_ “Amigo, io e mio cognato andiamo su al chiosco dagli amici, voi intanto fate pure il bagno insieme”
A questo punto mi scoccio veramente e vado in mare. La poveretta, fedele alle istruzioni impartitele, fa per seguirmi ma non sa nuotare bene e così, mentre io vado al largo, è costretta a rimanere a riva. Prova a chiamarmi ma non le do retta. Quando riemergo dalle acque, ricompaiono sul bagnasciuga anche il gatto e la volpe.

_ “Abbiamo visto che hai fatto il bagno al largo, la chica non è riuscita a seguirti…”
_” Non c’è problema, il bagno lo faccio da solo grazie”
_” Andiamo a bere qualcosa?” _ “ Ho finito i soldi, amigo. Terminati. Sì sì”
Capendo che non tira più aria per loro salutano e se ne vanno.
(continua)

Saturday, January 11, 2003

Cienfuegos
Una notte a Cienfuegos, la città dedicata a un eroe della rivoluzione, “el hombre de la vanguardia”, che qualcuno dice sia stato fatto fuori dallo stesso Fidel. La città dove è in costruzione l’unica centrale nucleare di Cuba, per fortuna non ancora in funzione.

Passo le ore del pomeriggio a girare per il lungomare, guardando i resti di quelli che furono i casinò gestiti dalla mafia di Lucky Luciano, durante la dittatura di Batista. E sperimento la prima discriminazione a mio danno dell’aprtheid cubano. Vorrei prendere un risciò ma nessuno mi carica. “Tu non puoi, sei turista, devi prendere il taxi”. Con un caldo porco dovrei chiudermi in una scatoletta perché non sono nato a Cuba? Col cazzo. Mi tengo il sole che mi picchia sulla testa, maledico Fidel una volta in più, e mi faccio il lungomare a piedi.

Il regime dice che a Cuba non c’è la prostituzione, al massimo ci sono le jineteras. Vorrei sapere allora come devo considerare quella bambina, probabilmente non arriva a quindici anni, che mentre passeggio mi chiede se può essere la mia chica. Le dico che è un po’ troppo giovane e che non mi piacciono le donne a pagamento. Per tutta risposta si avvicina al mio orecchio e comincia a mormorare “Diez… diez…”, dove diez sta per dieci e la parola sottointesa che manca è dollari. Per non inquadrare la vicenda da moralista bacchettone, quale (vedi sopra) non mi pare di essere, occorre aggiungere che a Cuba è normale avere rapporti sessuali a 14-15 anni. Mi chiedo se lo sia altrettanto venderli agli stranieri per dieci dollari.

La sera sono seduto su una panchina, nel corso principale. Arriva un tizio piuttosto grosso.
_“Hey amico posso parlare un po’ con te?” “Prego” . E mi attacca una pezza di almeno un ora sul fatto che lui è un pugile della nazionale cubana, che è stato anche in Italia, che si sta preparando per Sydney. Poi mi dice che con gli italiani non picchia duro ma con gli americani sì. Ecco, se ancora potevo avere qualche dubbio, da questa frase mi risulta inequivocabile che si tratta di un contapalle.

Arriviamo a una discoteca all’aperto.
_“Hey amigo, se qualcuno ti infastidisce dillo a me che sono pugile, lo smarrisco io.” Grazie, ma non c’è bisogno.
_“Hey amigo, mi offri una birra?” Volentieri. “Hey amigo, mi offri un’altra birra?” Volentierino.
“Hey amigo mi offri una bottglia d’acqua, se mi dai un dollaro vado a comprarla alla baracchina e torno subito” Certo, come no? Ovviamente non lo rivedo più. Me la sorrido sotto i baffi, così e Cuba.

Cosa avreste fatto voi a questo punto? Sareste andati a nanna? Siete persone sagge. Io invece ho ereditato i geni di un mio antico progenitore, tal Lucignolo, che mi obbligano a perseverare negli errori. Non è certo colpa mia.

Mi aggrego a un gruppetto di cinque tra ragazzi e ragazze, che mi invitano ad andare in discoteca con loro.
_“Hey amigo, le ragazze non hanno abbastanza soldi per l’ingresso, ci presti un paio di dollari?”
A questo punto parlo solo italiano, però molto chiaro e scandito.
_“Allora. Io sono qui da neanche una settimana e tutti mi chiedono soldi. Io non lavoro per mantenere qualche migliaio di cubani. Quindi facciamo così: andiamo in discoteca , quando siamo là io vi integro il biglietto con un paio di dollari, poi voi non mi chiedete più nulla per tutta la serata, ok?”

Ok. In discoteca non ci fanno entrare perché una delle ragazze non ha i documenti e sembra un po’ troppo giovane ai gestori.
Finiamo in una birreria statale che sta aperta fino a tardi. La birra costa pochissimo e, per la prima volta da quando sono arrivato, saranno loro ad offrire a me il primo giro. Si crea una bella atmosfera. I ragazzi sono simpatici. Parliamo. Io gli racconto le mie avventure da quando sono arrivato. Loro ridono, capiscono il mio punto di vista. E mi raccontano il loro.

Mi dicono che vengono da Santa Clara, che sono a Cienfuegos perché c’è un po’ più di vita, che gli piace fare casino. Sembra il trionfo della banalità. Piccolo particolare: siamo a Cuba. E, anche se le distanze più o meno sono simili, non è come un gruppo di ragazzi che da Modena va a passare la serata a Bologna. O che da Lodi fa un salto a Milano per una vasca in Galleria. Perché nessuno di questi miei nuovi amici possiede un auto propria. E le loro famiglie neppure. Quindi i trasporti sono legati a passaggi occasionali o al mezzo pubblico. Andare in un'altra città a passare la serata, vuol dire come minimo passarci anche la nottata. A questo si aggiunga che a Cuba non è normale essere residenti in una città e trovarsi in un’ altra senza un valido motivo. Perché i vagabondi sono gente che solitamente vive di espedienti. E se sei una ragazza carina e ti trovi in una città di mare che non è la tua, beh, l’espediente è facilmente intuibile. Quindi la gente non ti guarda proprio benissimo.

Parla Miguel: _“Io lavoro in una ditta statale che inscatola le porzioni di carne distribuite con la Librèta” (che vuol dire a prezzo politico). “ Il mio salario mensile, tradotto in dollari, equivale a circa 8. Un paio di pantaloni comprato in negozio ne costa 20. Come faccio a sopravvivere secondo te? E’ semplice: rubo. Tutti rubano nella mia fabbrica. Rubiamo sul peso delle porzioni di carne e poi ce la vendiamo al mercato nero. Nessuno riceve la quantità di carne che sarebbe prevista. Se la pesi ti accorgi che è sempre meno. E funziona così con tutto.”

_“Dai, vieni con noi a Santa Clara, sei nostro ospite, ti facciamo vedere la Cuba reale.”
Lì per lì la cosa mi sembra appetibile. Ci si sta bene coi ragazzi, sembrano sinceri. Ci si parla bene. E poi c’è quella Claudìa che è simpatica, molto carina… e tutta la serata è così leggera… e tutti i giri di birra che abbiamo fatto.. e …oddio, ci stiamo già baciando.
Bene. Mi chiama già tesoro, amor. Vuole che vada a casa sua, o meglio, di sua zia, dove è ospite. Ma quando anche la birreria chiude la nostra nottata prosegue, con tutto il gruppo. Giriamo, bighelloniamo, parliamo, torniamo nella discoteca all’aperto dove avevo incontrato il pugile. Finisce che sorge anche il sole. E così ci troviamo io e lei, mano nella mano, in una città che si sta popolando di gente che va a lavorare. O al mercato. E forse io sono troppo bianco. O forse è il suo vestito che è troppo appariscente. Fatto sta che mi sembra di girare con un insegna al neon addosso. Ci guardano tutti. E già qui la catena mi scende un po’.

Poi arriviamo a casa sua. O meglio di sua zia. E ci apre sua zia. “Tranquillo, mia zia e mio zio devono andare a lavorare. Staranno via tutto il giorno”. Mi sento una merda.

Poi apre la porta della sua stanza e dentro c’è sua figlia che sta dormendo. “Ah, hai una figlia?” “Sì, 12 anni. E’ bellissima, no?” Sì. Sono io che mi faccio schifo.

A questo punto la bimba si alza, esce dalla camera e poi torna porgendo alla madre una manciata di profilattici.
_ “Non ti preoccupare, mia figlia va di là in sala a fare i compiti. Non sente niente.”
Ah-bè-allora-se-non-sente-niente…

_“Senti, non te la prendere, io ho cambiato idea. Vado a casa a dormire. Ci vediamo in giro, eh?”
Seguono cinque minuti di ”No, ma perché?” “Cosa c’è che non va?”
_”No senti, non c’è niente che non va. E’ che bisogna essere in due no? Ecco, a me m’è scesa. Non ne ho più voglia.”
“Ecco adesso vai con un'altra..” “Tanto tu puoi avere tutte quelle che vuoi…”
“Tranquilla, vado solo a dormire”.
“Va bè, lasciami almeno 5 dollari per mia figlia” Ti pareva.. eccoli.
“ Se ti vedo con un'altra te mato.” Sì sì.

Esco e in strada c’è una manifestazione di regime coi bambini che recitano poesie.
Ho la nausea. Arrivo a casa, faccio su la mia roba e dico al padrone di casa che parto immediatamente.
_“Ma aveva detto che si sarebbe trattenuto un altro giorno”. Ho cambiato idea
(continua)

Friday, January 10, 2003

Dalla parte dei forti
Andare a Cuba è come entrare in una prigione in cui i detenuti fanno a gara per offrirti i loro servigi. Perché tu puoi essere la chiave che apre la loro cella o comunque, anche se non sono così fortunati, può migliorargli la permanenza. Bello, no?

A Cuba vige l’apartheid. Te ne rendi conto subito se non hai gli occhi foderati di salame ideologico o se non sei di quelli che non vogliono vedere. Però non è vero che fa così schifo, c’è una cosa positiva in tutto questo. Cioè che tu sei dalla parte bella della barricata. Quella dei forti. Quella dei ricchi. Tu sei un turista. Razza superiore. Se in Banca c’è la coda, il cubano sta in fila. Tu passi. Per prendere un gelato al Coppelia, la gelateria più grande e famosa dell’isola, un cubano impiega un paio d’ore. Tu un paio di minuti. Ma che non ti venga in mente di sbagliare coda e di metterti con gli indigeni , magari per fare il radical chic. Perchè dopo 2 ore di attesa non ti danno il gelato e ti indirizzano nella coda giusta. A Cuba non vogliono martiri. Tu sei razza superiore e non devi rompere i coglioni. Tu hai i privilegi e te li devi tenere.

All’Avana c’è un poliziotto ogni duecento metri. Non è un modo di dire. All’Avana c’è un poliziotto ogni duecento metri. A qualsiasi ora del giorno e della notte. Almeno nei quartieri frequentati dai turisti. Mi ispirano repulsione? No, sicurezza. Loro sono i cani da guardia al mio servizio. A dir la verità, in realtà sono al servizio del vero padrone, quel Fidel Castro che va a tutti i summit mondiali a fare l’eroe della giustizia sociale. Ma in questo momento io sono un elemento (il turista) funzionale al suo potere. Quindi sono dalla parte giusta. Quella dei forti.
Giro per i vicoli più bui dell’ Avana vecchia in piena notte. Mi guardo intorno.

Stronzi cubani. Io sono solo, in un paese che non conosco, di cui parlo male la lingua, con in tasca una cifra che per me è niente e per voi equivale a otto mesi di stipendio, giro in piena notte nei vicoli più bui del centro della vostra città. Provate a toccarmi, bastardi. Mi basta alzare un dito e vi faccio passare un brutto quarto d’ora …Dio quanto è bello essere dalla parte dei forti…

A Cuba i fatti di violenza sono cosa molto rara. Da questo punto di vista è veramente un bel posto. Ad esempio rispetto alla vicina (e molto violenta) Giamaica. Mi piace pensare che i cubani siano così poco violenti per cultura, non solo per il terrore che il regime può ispirare. Mi piace pensare, in questa disgustosa situazione, di aver trovato persone miti per indole. Probabilmente sbaglio. Ma non è certo. Potrei avere sorprendentemente ragione.

Jinetere
Alla parola Jinetera, la mia guida associa un vocabolo italiano molto preciso: prostituta.
La realtà, scoprirò, è un pelo più complessa. Perché è vero che la Jinetera è un mestiere. E, se per mestiere intendiamo un’attività dalla quale si trae il sostentamento, è uno dei pochi veri mestieri che ci sono nella Cuba di oggi. Però c’è una differenza di atteggiamento tra la Jinetera e la prostituta: la prostituta per definizione pattuisce chiaramente il prezzo della prestazione e si fa pagare prima. Cuba è piena di prostitute, ma pronunciare questo nome è assolutamente vietato.

La Jinetera invece è quella che, secondo il luogo comune, va con lo straniero per una cena o una maglietta. Balle.
Un tempo il regime le definiva: volontarie para el turismo . Ma, come dicono gli autoctoni, “a Cuba le cose cambiano in fretta”. E dopo la visita del Papa si è dato un giro di vite. (Si dice in giro che faccia parte degli accordi Cuba-Vaticano).
Così, l’anno prima del mio arrivo, a un certo punto all’Avana hanno fatto una gigantesca retata di jinetere. Le hanno prese, portate in un campo di rieducazione, rasate a zero e poi hanno dato il foglio di via a tutte quelle che venivano da fuori la capitale. Alle altre hanno detto loro che se le ribeccavano a fare quel mestiere finivano dentro.
Risultato: crollo verticale del turismo.

La situazione che vedo io invece è già molto normalizzata. Le jinetere sono tornate in massa e la polizia si limita molestare con controlli assillanti solo quelle che si sono scelte un compagno un po’ troppo anziano rispetto a loro.
La cosa che colpisce l’ingenuo turista è che quasi tutte si indignano se gli chiedi prima se vogliono soldi.
_” Soldi per fare l’amore? Ma per chi mi hai presa? Vengo con te perché mi piaci”
Negano di essere di jinetere, negano di cercare gli stranieri, negano tutto. Salvo poi chiederti regolarmente dei dollari dopo essere venute a letto con te.
_”Ma mica per il sesso, eh? Solo perché tu sei ricco e devi farmi un regalo.“

Terzo giorno
Il terzo giorno cambio alloggio, mi trasferisco dall'hotel in una casa particular del Vedado.
Poi bighellono per la città. Finirò a Plaza de la Revolucion e poi al Cafè Cantante.

L’Avana è bellissima. Ha i colori caldi e il fascino coloniale decadente. Girarla sui taxi che funzionano come autobus e caricano e fanno scendere le persone lungo il tragitto è una cosa da fare assolutamente.
L’Avana per un turista maschio e solo è l’inferno. Non puoi fare cinque passi di fila senza che si avvicini uno scocciatore e cerchi di importunarti.

Quando faccio i conti coi soldi scopro che in neanche tre giorni ho speso quasi 300 dei 1200 dollari che costituiscono il mio budget di permanenza.
Scappare. Fuggire dall’Avana. Fuggire subito e a gambe levate.
(continua)

Thursday, January 09, 2003

Il mattino dopo non vado via. Verso le dieci a.m. sono già in strada. E vengo immediatamente agganciato da due Jineteros, che secondo la mia guida vuol dire “seccatori da strada”
“Hey amico, fermati un attimo…sei italiano vero? (me lo dicono in italiano)
Ora: io non ho l’aspetto dell’italiano. La mia pelle molto chiara e la cuperosi del viso mi fanno assomigliare a uno che viene un po’ più da nord. E infatti molti di questi scocciatori mi si rivolgono in inglese. Qualcuno mi chiede se sono olandese. Sui vestiti, maglietta e calzoncini molto semplici, non ho assolutamente scritte in italiano. Allora mi prende la curiosità.
_” Sì, è vero. Come fate a saperlo?”
Sono due ragazzi piuttosto giovani, capelli corti, scuretti di pelle. Praticamente dozzinali.
_ “Le scarpe. Porti le Lotto” .
E dire che pensavo che indossare questa marca aumentasse il mio anonimato. Mah, forse sono stati solo fortunati.
_” Amico vieni a fare un giro con noi. Noi siamo della città, ti facciamo vedere tutto quello che c’è da vedere, ti spieghiamo tutto molto meglio di qualsiasi libro”
_ “Mah, veramente non credo che…”
_ “Non aver paura amico. Qui siamo a Cuba, non in Italia. Su quest’isola ci sono nove milioni di persone, quattro milioni di poliziotti e un solo padrone: Fìdel. Qui non c’è criminalità, niente mafia, niente Totò Riina. Non corri nessun pericolo, non aver paura.
Noi non vogliamo soldi, lo facciamo per uno scambio culturale: tu ci racconti un po’ del tuo paese e noi ti facciamo vedere il nostro.”
Non è che io sia totalmente sprovveduto ma, anche se l’ultima frase mi è suonata subito assolutamente falsa, il resto del discorso è plausibile.
E siccome non c’è truffa senza un po’ di complicità da parte del pollo, io faccio la mia parte. E accetto di seguirli mentre mi fanno da guida.
_ “Bene amico. Solo una cosa: tutte le volte che incontriamo un poliziotto noi andiamo un po’ più avanti e fingiamo di farci gli affari nostri. Sai, è illegale per noi intrattenere rapporti con uno straniero.”
Vero. E allora com’è che ieri sera ho girato tranquillamente con una signora al mio fianco, incontrando almeno venti poliziotti, senza che nessuno dicesse niente? Semplice: con le donne non ci sono problemi. Non ci devono essere. Se no chi ci viene più su quest’ isola?
Dico loro che l’Habana vieja l’ho già vista ieri sera e mi faccio portare:
- in banca (avevo bisogno di prelevare)
-alla centrale dei telefoni pubblici (avevo bisogno di telefonare)
poi loro mi portano:
- al Capitolio, il parlamento, che è una copia del Campidoglio di Washington.
- al Barrio Chino - il quartiere cinese
_ “Amico, ci facciamo un mohito?”
_ “Ok” (5$ l’uno = 15$)
-in un mercato popolare e in un dedalo di strade del loro quartiere, Habana Centro
_”Amico ci offri una canna? ”
_”Ok” (3$, ne sborso 5 e non vedrò mai il resto)
Mi portano in casa di uno di loro, mi fanno conoscere la famiglia, poi andiamo sulla terrazza in cima alla palazzina e ci facciamo lo spinello.
Mi portano anche nella loro chiesa, esempio del sincretismo religioso che qui a Cuba ha prodotto la cosiddetta Santerìa.
Gli schiavi africani venivano obbligati a convertirsi al cristianesimo, e così per continuare ad adorare le loro divinità le associavano al culto di un santo cattolico. Nella chiesa infatti ci sono tanti santini, i miei accompagnatori fanno il giro baciandoli tutti, uno per uno e chiamandoli coi nomi delle divinità africane.
es. Chango - dio della guerra, del tuono, del fuoco alias Santa Barbara
Babalu Aye - dio dei lebbrosi, della medicina alias San Lazzaro
Ogun - dio del ferro, della saggezza e delle montagne alias San Pietro
A questo punto si va a pranzare in un Paladar, un ristorante privato. ( 10$, prezzo piuttosto basso perché i compari si fanno dare i soldi da me col padrone fingono di pagare loro)
Poi torniamo all’hotel in risciò. (1$)
Entriamo nella hall e a questo punto mi dicono
_” Bè, guarda.. per l’accompagnamento vorremmo chiederti una mancia... tipo 20 dollari, dieci a testa”
Io ancora non mi rendo conto bene della realtà che mi circonda, però capisco che è una fregatura in piena regola. E d’altra parte di cosa mi lamento? Non era forse farmi fregare il mio scopo, fin da quando ho accettato la loro compagnia? Accetto senza batter ciglio.
Nel momento esatto in cui sto consegnando loro i soldi, un gigantesco poliziotto dà due colpi di manganello sulla vetrata della hall. Indica col dito le mie due guide e gli fa cenno di venire da lui. I due non dicono una parola e si precipitano dall’agente, che ne chiama uno in disparte e comicia a compilare un foglio.
_ “Cosa succede?”
_ “ Niente, ci ha beccato sul risciò insieme a te e ci ha seguito”
_” E adesso?”
_” Non c’è problema, ci fa una multa”
_ “Mi spiace” [godo]
_”Non preoccuparti, se vuoi ci rivediamo domani”
_” No. No no. Domani scappo -pardon- me ne vado dall’Havana.

Il pomeriggio tardo, girando per l’Avana, finisco per chiedere informazioni su non so quale strada a due tipi che cercano di agganciarmi.
_”Dicci dove vai stasera amigo”
_”Non ne ho la più pallida idea”
E li smollo.

Quella sera vado prima al Jazz club e poi in una discoteca del Vedado, Las Vegas.
E neanche a farlo apposta: ci i sono i due tipi che qualche ora prima avevo smollato. Sfiga! Con tutti i posti che ci sono all’Havana.

_ “Amigo, che fortuna averti reincontrato. Sai, con tutti i posti che ci sono…”
Appunto
Mi presentano Yarianne.
Ecco: la solita jinetera. Perché io giassò che è una jinetera. Almeno lo immagino.
Però. Però... . Però. Però è anche una mulatta incantevole.
Troppo incantevole. Infatti balla con me tutta la sera strusciandosi incantevolmente. Tra un ballo e l’altro, consumazioni per tutti (io, lei e i suoi due amici) offerte da me, una foto (polaroid) scattata da un fotografo ambulante e offerta da me, e l’immancabile rosa del venditore ambulante. Bè, questa almeno è ovvio che sia offerta da me.
Con tutto ciò bisogna dire una cosa: a differenza di tutte le jinetere Yarianne non è invadente. Guardandomi intorno vedo le altre che non mollano un attimo la loro preda. Yarianne invece mi sembra molto più naturale. Ha anche altri amici cubani, a parte i due che me l’hanno presentata. E spesso parla, balla e scherza anche con loro. Ma allora, è una jinetera o no?
Come fanno spesso le ragazze da quelle parti, mi chiede se ho già provato una cubana. Le rispondo di sì, ma che non è stato proprio piacevole. E le racconto per sommi capi la storia del giorno prima. Le dico che non mi piace pagare. Lei afferma che invece è giusto. Ma lo dice con un sorriso tra le labbra, che non si capisce
A fine serata dice che vuole venire con me, fare l’amore con me, eccetera.
Le dico che però sono in albergo, e c’è qualche problema. Che domani cambio e vado a stare in una casa particular, ma per stanotte sono ancora lì.
_ “Allora amor, ci vediamo qui domani sera. Balleremo e poi andremo a fare l’amore…”
Mah.
Uscendo dalla discoteca penso a due cose. Primo: che lei mi piace da impazzire. Secondo: che di fare sempre il pollo comincio ad averne abbastanza.
Prevarrà la seconda cosa.
(continua)